lunedì 31 dicembre 2012

Vinka Kitarovic – Nome di battaglia Lina (nel Bolognese) e Vera (nel Modenese)

Vinka Kitarovic
Ieri, 26 dicembre, è venuta a mancare, all’età di 86 anni, Vinka Kitarovic di origini croate, partigiana, che per il suo ruolo nella Resistenza ottenne il riconoscimento militare di capitano.
Segue una brevissima biografia del suo trascorso partigiano. Ho conosciuto Vinka in occasione di un incontro con gli studenti della scuola media. Era una persona che si era dedicata alla memoria sempre disponibile per parlare della sua esperienza con i giovani perché il sacrificio di tanti compagni e compagne in quegli anni non vada disperso. Proprio da lei queste parole assumevano un significato più profondo, perché scelse di combattere il nazifascismo in Italia, paese dove era stata deportata e non rientrare per combattere nella sua nazione nativa la Jugoslavia. Lei da straniera ha contribuito alla Liberazione, alla rinascita del nostro paese. Il tempo è inclemente e purtroppo un ennesimo testimone ci ha lasciato.
Biografia
Nasce il 5 aprile 1926 a Sebenico (Jugoslavia). Frequentò il 6° anno di ginnasio secondo l’ordinamento scolastico in atto in Jugoslavia.
Studentessa, aderì all’Unione della gioventù comunista (SKOJ) alla fine del 1942. Stante l’occupazione italiana della regione, venne arrestata per attività di opposizione dalla polizia fascista, a Sebenico, nell’autunno 1942.
Dopo quindici giorni di carcere, assieme ad altre due connazionali arrestate per motivi politici anch’esse, venne tradotta in Italia, a Bologna, e rinchiusa in una casa di rieducazione per minorenni, minorate e prostituite.
Attraverso una guardiana dell’istituto animata, da sentimenti antifascisti, si collegò con i comunisti Linceo Graziosi e Giorgio Scarabelli. Con questi concertò la fuga dall’istituto che realizzò, assieme ad una delle due compagne jugoslave, agli inizi dell’ottobre 1943, approfittando del trambusto accaduto durante un bombardamento aereo.
Tramite la trafila clandestina venne allogata in casa colonica a Zola Predosa. Di qui salì in montagna, sopra Monte San Pietro, per collaborare ad un tentativo di insediamento partigiano nella zona; tentativo fallito per via di una delazione. Rientrò a Zola Predosa e poi si nascose presso la residenza dei fratelli Gianni, Giacomino e Vincenzo Masi. Dal febbraio al giugno 1944 svolse attività, in qualità di staffetta, nella 1a brg GAP Gianni Garibaldi. Ricercata dalla polizia fascista sfuggì all’arresto trasferendosi nel modenese. Venne inserita nel comando della 65a brg Walter Tabacchi della 2a div Modena Pianura e lavorò a stretto contatto col comandante Italo Scalambra. Agli inizi del 1945 venne designata componente dell’ufficio di collegamento del CUMER a Modena. Congedata con il grado di capitano.
La sua testimonianza pubblicata nel 1980
Essendo stata un’internata politica — sono di nazionalità iugoslava — nell’autunno del 1943, dopo il 25 settembre, ebbi occasione di incontrarmi con Giorgio Scarabelli e Linceo Graziosi, tramite una conoscente di quest’ultimo che fungeva da sorvegliante nel luogo della mia detenzione.
Quale fatto, dunque, e quale momento politico mi sembrasse più significativo — riferendoci alla situazione politica, italiana — mi riesce difficile dire, appunto perché la realtà italiana di allora io la conobbi dietro le « sbarre ». Personalmente aderii alla Resistenza italiana, in quanto nella stessa ritrovavo sia il pensiero, sia il fine che erano alla radice del movimento di Resistenza del mio Paese. Gli italiani insorgevano contro il nazifascismo, che opprimeva il mio popolo, e mi sembrò quindi la cosa più logica e più naturale unirmi ad essi nella lotta contro il nemico comune.
Appunto perché ero una straniera, e per di più giovanissima, sinceramente credo che, se volessi analizzare i miei Sentimenti di allora e forse anche di oggi — il fatto di maggior interesse politico per me fu, e rimane tutt’ora, l’unità e la crescente partecipazione delle genti italiane al movimento di liberazione. Il fattore politico per me si affianca al risveglio della dignità umana del popolo e al riscatto dei valori che differenziano l’uomo da altri esseri viventi e quindi il movimento di liberazione e la Resistenza al nazifascismo sono parti non solo materiali, ma innanzitutto ideologiche ed etiche. Che lo stesso poi scaturisca in una serie di momenti più significativi o più decisamente circoscritti, rimane per me una conseguenza logica del pensiero che creò il movimento partigiano non solo italiano, ma anche internazionale.
Non so se ho risposto alle domande ma, onestamente, se voglio esser la partigiana della verità, così come allora cercai di essere degna della fiducia dei miei compagni di lotta, non posso rispondere in modo differente. Forse è dovuto anche al fatto che io facevo parte della schiera delle « staffette partigiane » operanti in pianura e in città, dove il fattore più importante era il contatto sociale.
Queste ritengo siano state le cause che mi hanno portato a militare nelle file della Resistenza italiana e sono le stesse che spiegano a me il perché trovai tanto naturale unirmi ai compagni italiani e a lottare assieme a loro.
Essere una staffetta partigiana non implicava la partecipazione diretta ad una determinata azione, ma un’attività di affiancamento, di collegamento, di sostegno.
Sono stata una staffetta della 7a GAP nel periodo febbraio-giugno 1944 e in seguito staffetta del comando della 65a brigata « Walter Tabacchi » di Modena e nell’ufficio di collegamento del CUMER, sempre a Modena.
Per l’attività da me svolta i ricordi e le emozioni non si possono scindere in quelle « bolognesi » e in quelle « modenesi », ma sono ricordi e sentimenti di un’epopea partigiana che non conosce confini territoriali.
Ho già ricordato che l’attività di una staffetta si differenzia da quella normale attribuita ad un partigiano: è un’attività che non scaturisce (almeno per me) in determinate azioni di guerra (anche perché ho sempre lavorato presso i comandi e nelle città), ma s’intreccia e procede con queste, non coincidendo mai totalmente con il momento dell’azione partigiana. Questo non vuole dire che i ricordi e le emozioni siano mancate, erano invece differenti da quelle di un episodio particolare di guerra combattuto con le armi.
Le emozioni di diretta partecipazione che provai néU’esplicare il lavoro affidatomi si riferiscono a momenti particolari di pericoli, di ansie puramente personali e non credo quindi giusto identificarle con un determinato episodio di guerriglia partigiana. Se ai fini di un’« epopea partigiana » possono servire non solo le date ed i fatti, ma anche l’intensità di emozioni e di sentimenti che accompagnarono quel periodo, allora forse, la « staffetta partigiana » ne possiede in buona misura. Ma è inutile chiederle di precisare il momento più intensamente emozionante, il ricordo più vivo, perché ogni momento nel suo ricordo vive con una intensità che non ha misura.
Sono ricordi di uomini e di donne, di compagni di lotta con i quali ci si incontrò, con cui si studiarono i particolari di una determinata azione, ai quali si consegnarono le armi, gli ordini, le informazioni, la stampa; coi quali ci si rallegrò delle vittorie riportate e ci si rattristò sulla durezza della guerra e dell’oppressione.
Sono ricordi insomma di sogni comuni per un mondo libero da guerre e da oppressioni. E spesse volte questi uomini e donne mancarono all’appuntamento seguente e, magari, la staffetta fu testimone diretta e muta del loro arresto, quando non capitò di rivedere i compagni freddi e immobili nella morte. Quali di questi ricordi è più o meno intenso? Io non posso misurarli. Ogni uomo, ogni donna, nel mio ricordo occupano lo stesso spazio: non c’è differenza.
La sua autobiografia a puntate pubblicata nel 2009 sul periodico Resistenza
Avevo quindici anni
L’opposizione agli invasori per difendere l’indipendenza della patria, la cultura (e la lingua), la dignità personale. Arresto per antifascismo e deportazione in Italia, nell’Istituto di rieducazione di Bologna.
Mi ricordo quell’inizio della primavera del 1941. Splendide giornate serene riscaldate dal tepore dei raggi del sole. La vita era bella ed io tra poco avrei compiuto 15 anni.
Frequentavo il ginnasio, ero felice. Avevo i miei amici, avevo tutta mia la bellezza della mia terra, della mia città; avevo la mia famiglia, l’affetto dei fratelli tanto più grandi di me e del mio fratellino, avevo l’amore dei miei genitori.
La famiglia era modesta: anche se priva di ricchezza abbondava il calore dell’affetto.
Il babbo è stato il mio primo grande amico. Da piccola, tenuta sulle sue ginocchia, lo ascoltavo raccontare, tra storia e leggenda, gli eventi passati del nostro paese – Jugoslavia – nel tempo una terra travagliata, assoggettata a stati più forti (Turchia, Austria), sfruttata ma mai domata. Mi ha insegnato ad amarlo e di non dubitare mai e lottare per la propria dignità, umanità: avere speranza per il futuro.
Aspettavo la fine dell’anno scolastico per godere il mio mare Adriatico, nuotando e veleggiando tra le isole con gli amici. Questo era il mio mondo all’inizio della primavera del 1941, bello e spensierato.
Quando la prima domenica dell’aprile, durante la messa nell’antica cattedrale di San Giacomo in cui lavorarono Giorgio il Dalmata ed altri architetti italiani – la città vanta nel suo patrimonio monumentale il citato duomo (1431-1555), la chiesa di San Francesco con attiguo convento (1300); la chiesa di San Giovanni con orologio tipo turco e la scalinata esterna che sembra un pizzo di pietra; la chiesa ortodossa e la rinascimentale Loggia Grande del Sanmicheli di fronte alla cattedrale stessa – alla quale noi studenti eravamo obbligati ad assistere, il vescovo interruppe la preghiera e voltandosi verso di noi disse: stamattina all’alba gli aerei tedeschi hanno bombardato Belgrado, si temono migliaia di morti.
Rimanemmo frastornati, si sentivano voci: è la guerra!
Incredula, senza capire del tutto cosa significasse la guerra, tornai a casa. I genitori erano silenziosi e preoccupati: mio fratello Ivo lavorava a Smeredevo, la città industriale vicina a Belgrado, io capii ed ebbi paura per lui. Man mano che le ore passavano venimmo a sapere del crollo dello Stato, dello sfacelo dell’esercito. I soldati disertavano, gettavano le armi, molti però le seppellivano e tornavano a casa. Io pregavo per il fratello.
Seppi che la Jugoslavia veniva occupata dalle truppe tedesche ed italiane e divisa. Si parlava
di violenze, di morti.
La mia città, Sibenik, era ed è tuttora un porto militare ove erano ancorate le navi da guerra. Arrivarono gli aerei tedeschi, gli Stukas, a bombardare e mitragliare le navi ed il porto.
Fortunatamente alla città furono risparmiate le distruzioni gravi.
Trascorsero due-tre giorni di caos: senza governo, senza esercito, la gente aspettava trepidando. Poi alla sera arrivarono camion zeppi di soldati: erano italiani. Immediatamente il giorno dopo fu emanato il coprifuoco: dal tramonto all’alba successiva vietato uscire di casa. Si sentiva nella notte il movimento di mezzi corazzati e cannoni.
Mi ricordo che la prima sera del coprifuoco il babbo tardava a rientrare a casa; la mamma era allora agitata sapendolo poco ben disposto verso gli italiani, contro i quali combattè prima nella Grande Guerra 1915-1918 quale sottufficiale della marina austro-ungarica e nel periodo successivo 1918-1921 quando l’esercito italiano venne ad occupare la nostra città.
Al suo rientro a tarda ora, essa lo rimproverò di incoscienza e lui, il mangiaitaliani, le disse: ho visto dei giovani soldati, stanchi, impolverati, chiederci da bere e qualcosa da mangiare e siccome mastico qualche parola di italiano li ho accompagnati verso i luoghi in cui potessero ristorarsi. Erano così giovani, li vedo come figli. Io ascoltavo le parole di mio padre e non le ho mai dimenticate perché le sento ancora come una raccomandazione che innanzitutto non bisogna perdere il senso di umanità.
La spensieratezza dei miei quindici anni giorno dopo giorno scompariva.
A seguire il coprifuoco arrivò il razionamento.
I viveri scarseggiavano, si conobbe la fame, compariva il mercato nero. Le famiglie non ricche, come la nostra, finiti i pochi risparmi ed anche perché la pensione di papà era ormai incerta, vendevamo tutto il possibile per sfamarci. Scoprii un giorno che i miei si decurtavano quel poco della loro razione affinché io e mio fratellino di dodici anni potessimo alimentarci di più. Mi ribellai, li costrinsi a mangiare in mia presenza, sotto la minaccia non mangiare anch’io.
A scuola, noi studenti non eravamo più allegri: c’era nell’aria un’attesa di qualcosa. Una mattina sbarcarono le camicie nere italiane, una masnada di energumeni con le maniche rimboccate, stringendo in una mano il manganello e nell’altra una bottiglia. Così feci la conoscenza con i fascisti.
Marciavano verso si giardini e il centro città cantando a squarciagola. Lungo il percorso chi non salutava veniva percosso e obbligato ad ingurgitare il contenuto delle bottiglie. Seppi che contenevano olio di ricino ed un altro intruglio della cui qualità non sono certa. Spaccavano le vetrine e le insegne dei negozi scritte coi caratteri della nostra lingua. Noi giovani riuscivamo a sottrarci a quella violenza fuggendo, ma gli anziani no.
Mi chiedevo: dunque questi barbari sono italiani, ma allora quello che ho studiato dell’Italia, il paese delle arti, della poesia, il paese di Dante, Petrarca, Leonardo ed altri, dove sta? Era un inganno? E poi vennero nelle scuole.
Pretesero che studiassimo solo la lingua italiana. Pochi di noi la conoscevano.
Minacce, intimidazioni. E allora in noi, anche in me, accanto alla paura, subentrò l’indignazione, la ribellione, l’odio per ciò che ci veniva imposto.
Non volevamo rinnegare origini, cultura.
Ci fu chi bruciò i testi obbligatori in italiano, rischiando rappresaglia.
Iniziarono riunioni clandestine, ed imparammo il significato di fascismo e nazismo. Da qui la resistenza di noi studenti, dapprima passiva reagendo col silenzio duro alle ingiunzioni e via via sempre più attiva in varie forme, come scrivendo di notte sui muri parole di lotta e di speranza. Io, come tanti altri, mi iscrissi a SKOJ, l’Unione della gioventù comunista jugoslava.
Mio fratello Ivo tornò a casa percorrendo a piedi l’enorme distanza da Belgrado a Sebenico e parlò della violenza, della sofferenza inflitta al nostro popolo. Restò per poco, sparì, era diventato partigiano: si andava formando il nostro esercito di liberazione.
Il terribile scenario portato dagli stranieri era fatto di arresti, deportazioni, fucilazioni, incendi e massacri nei villaggi.
A dare manforte ai nazifascisti erano gli ustaša, i feroci ustascia del venduto Ante Pavelic, pupillo di Mussolini, addestrati in Italia. Era il periodo in cui i giovani non erano più giovani e i vecchi non potevano fare i vecchi. C’erano momenti in cui piangevo per la mia giovinezza rovinata, per i sogni infranti, ma nello stesso tempo non ho mai voluto cedere: pensavo a come poter entrare in una formazione partigiana.
Gli studenti erano sospettati di antifascismo, talché nelle case cominciarono le perquisizioni. A me sequestrarono le innocenti fotografie dei periodi felici.
Una sera dell’ottobre 1944, dopo il coprifuoco, sentimmo bussare alla porta. Era la polizia che cercava me e mi portò via. I miei genitori imploravano in lacrime, ma è una bambina, ha solo sedici anni, perché? Nulla da fare. In carcere trovai altre dieci compagne di classe. Pare che nella casa di una di esse fosse stata trovata una lista coi nostri nomi, per la polizia assai sospetta.
L’interrogatorio a base di lusinghe e di minacce non dette alla polizia italiana i risultati che si attendeva, Noi ragazzine fummo separate, io finii in una cella di metri tre per quattro, dove c’era la mamma di un partigiano ed in cui rinchiusero altre cinque mie compagne.
Seguirono giorni tetri. I genitori li vedemmo solo il giorno prima della nostra deportazione in Italia.
Inimmaginabile la disperazione loro e nostra. La mattina seguente, era metà ottobre, il cellulare Crna Marica (Maria nera) come lo chiamavamo noi, ci trasportò – eravamo undici dai sedici ai diciassette anni – al porto.
L’ultimo ricordo della mia città lo ebbi, seppure al prezzo di diversi ceffoni, sbirciando dalle fessure e vidi tutta la riva piena di gente tenuta a bada dai soldati con i fucili spianati. Aveva saputo ed era venuta a rincuorarci.
Non si può dimenticare una visione così. Circondate dai poliziotti ci fecero entrare nella stiva della nave, non permettendoci di salutare, anche con un solo sguardo affettuoso, la nostra cara Sibenik. Poi rotta su Trieste.
Scese dalla nave a Trieste fummo separate e destinate: quattro a Roma, quattro a Milano e tre a
Bologna. Io fui destinata a Bologna con Marija Separovic e Visnja Gavela. Di Trieste vidi un pezzo di marciapiede prima che i poliziotti ci infilassero in macchina.
Lunghe ore di viaggio; ognuna mi allontanava sempre più dal mio Paese. Immensa tristezza. Era la terza settimana di ottobre 1942.
A notte, ancora fonda, arrivammo in una città che poi seppi essere Bologna, e qui fummo consegnate ad un uomo e ad una donna. Eravamo nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate che comprendeva anche un reparto di minorati psichici e un altro di epilettici, ed ora anche noi.
L’istituto a conduzione privata, si trovava in Via della Viola a Borgo Panigale. Le bambine e le ragazze traviate, i minorati e le guardiane – un mondo a noi completamente sconosciuto e angosciante – ci guardavano con sospetto ma anche con curiosità, perché presentate come “pericolose sovversive”ed in più non parlavamo italiano.
I titolari dell’istituto, la famiglia Piazzi: padre, un figlio ed una figlia. I figli bravi fascisti. Il padre Angelo era diverso. Ci guardava con compassione e nel tempo trovammo in lui molta comprensione. Era il primo italiano che si differenziava dai fascisti, finora conosciuti. Capimmo che forse vi era diversità tra un italiano e un fascista.
Nei lunghi mesi del 1943 scoprimmo che anche tra le guardiane c’era differenza.
Solo ai primi mesi avemmo qualche notizia dalle nostre famiglie, poi più niente. Visnja Gavela, di famiglia ricca fu graziata e mandata a casa. Rimanemmo in due. Tutte le volte che, orecchiando, sentivamo sussurrare o vedevamo i visi neri dei fascisti capivamo che la guerra per loro andava male: era una gioia per noi.
25 luglio 1943, caduta del fascismo, speranza di poter tornare a casa; 8 settembre 1943, armistizio Italia-Alleati, stessa speranza ma vana. Caos Italia occupata dai tedeschi, repubblica di Salò. Bombardamenti. I tedeschi venivano in istituto e noi avevamo il timore di finire in Germania.
Poi un giorno una guardiana si dichiarò antifascista affermando di poterci mettere in contatto con altri antifascisti se riuscivamo a fuggire. Accettammo subito e la speranza rinacque.
Durante una delle poche passeggiate fuori dall’istituto, lungo Via Agucchi, ci incontrammo con un giovane che ci indicò il luogo dove trovarlo se riuscivamo a fuggire.
Il 5 ottobre 1943 ci fu un bombardamento nella nostra zona. Fu colpita la centrale elettrica confinante con l’istituto, danneggiato anch’esso. Una visione apocalittica: fumo, polvere, cancelli scardinati, urla, terrore.
Cogliemmo l’occasione per fuggire. Correndo intravidi il vecchio Angelo Piazzi, che senza dubbio capì e ci salutò con la mano.
Nel luogo fissato trovammo il giovane di cui purtroppo non ho mai saputo il nome. Ci accompagnò in una casa, credo a Longara di Calderara di Reno, dove incontrammo Linceo Graziosi, Giorgio Scarabelli e Bruno Tubertini, da poco liberi dopo anni di carcere fascista. Ci prospettarono due possibilità: tentare di raggiungere la Jugoslavia, tenendo conto del caos generale che imperava in quel periodo, promettendo di aiutarci; oppure rimanere in Italia con loro e combattere il fascismo.
Immediatamente, nonostante il desiderio di rivedere le nostre famiglie, decidemmo di rimanere qui perché convinte che ovunque si combattesse il nazifascismo avremmo combattuto anche per la nostra gente lontana.
Fummo accompagnate in una casa di contadini a Zola Predosa. Non ho mai saputo i loro nomi ma l’accoglienza fu piena di simpatia e di generosità da parte delle donne che ci accolsero; non
lo dimenticherò mai. Conoscevano il rischio che correvano ma non si tirarono mai indietro.
Il giorno dopo ci trasferimmo in montagna, credo Monte San Pietro, dove trovammo anche alcuni uomini. Era l’inizio del movimento partigiano.
C’erano anche i prigionieri alleati fuggiti, accolti dai contadini, un po’ distanti da noi. Io e Marija portavamo i pasti ai prigionieri ma un giorno, mentre aspettavamo che finissero il pranzo, mi sentii un fucile nella schiena: erano militi italiani. Non so come, con il mio italiano imperfetto, raccontai che eravamo profughe siciliane, fuggite davanti all’avanzata alleata senza documenti. Meraviglia! Mi credettero ordinandoci di presentarci in caserma il giorno dopo: naturalmente dobbiamo ancora andarci.
I prigionieri, sentendo le voci, tentarono di fuggire mentre i militi corsero dietro loro e noi due velocemente tornammo dai compagni raccontando il fatto. Essi capirono di essere stati traditi. Fu deciso di sciogliere il gruppo e ognuno doveva tornare al suo luogo di origine.
Ma quale era il nostro luogo di origine?
Ricordo la lunga camminata notturna per sentieri sconosciuti evitando i luoghi abitati e, non so come, al mattino eravamo a Zola Predosa.
Riconobbi la casa, bussai, ci accolsero, ci ascoltarono e avvisarono i compagni.
Tornammo a Bologna, accolti a casa dei fratelli Baffè: Ottavio e Argentina.
Persone meravigliose, affettuose, piene di umanità.
L’odio provato per gli italiani al mio arrivo stava scomparendo. Nelle persone finora incontrate, dopo la fuga, riconobbi gli stessi sentimenti della mia gente e mi sentii tra amici.
Imparai ad andare in bicicletta.
Nel frattempo ci trasferirono in via Crociali presso la famiglia Masi dove conobbi i figli: Giacomino, Vincenzo e Gianni (quest’ultimo arrestato durante lo sciopero alla Ducati del 1 marzo 1944 e deportato in Germania dove morì), la sorella Lina e la madre. Non ho parole per esprimere la riconoscenza a questa famiglia di operai antifascisti.
Essi sono un ricordo importante della mia vita.
I primi passi della Resistenza. Mi accompagnavo con un giovane, che poi seppi essere Ermanno Galeotti, primo partigiano caduto, Medaglia d’Argento al Valor Militare. Facevamo la ricognizione degli obiettivi militari e strategici, i possibili atti di sabotaggio, pedinamenti dei gerarchi fascisti, qualche trasporto delle scarse armi che allora possedevamo. Fingevamo di essere una coppia ed eravamo tanto giovani da non suscitare sospetti.
Io avevo intanto cominciato a parlare discretamente italiano, la Marija no. Spesso fingeva di essere sordomuta. Alla fine di gennaio la Marija andò a Villanova di Castenaso, come staffetta della SAP e si fece onore. Io rimasi a Bologna nella allora costituenda VII brigata GAP.
Mi chiamai Lina.
La bicicletta era la mia compagna fedele. Sul manubrio una sporta e dentro, coperta da stracci, armi, munizioni, ordini, materiali di propaganda.
Piano piano conobbi altri partigiani, in prevalenza giovani come me o poco più adulti. Per tutti voglio ricordare “Aldo” (Bruno Gualandi), “Paolo” (Giovanni Martini), “Gianni” (Massimo Meliconi, Medaglia d’Oro al Valor Militare), “Italiano” (Renato Romagnoli) e anche “William” (Lino Michelini).
Staffetta dei Gap di centro, nel tempo imparai i luoghi ove incontrarci, prelevare o riportare armi, ordini, propaganda.
Mi ricordo un gelido giorno del febbraio 1944, io e “Sassi” (Sonilio Parisini), partimmo per la montagna bolognese ed arrivammo a Castiglione dei Pepoli e a Baragazza a prelevare gli esplosivi per le bombe. Mi ricordo la gelida notte stellata, la corriera sgangherata che ci riportò a Bologna.
Mi ricordo “Pietro” (Diego Orlandi), nostro artificiere che incontravo presso la chiesa del
Sacro Cuore, oltre il ponte di Galliera, che mi consegnava le armi e le bombe da trasportare.
Mi ricordo la pesante bomba destinata a Ferrara per un atto di sabotaggio, che faticavo a trasportare correndo verso il treno e un soldato tedesco che insistette ad aiutarmi. Salvandomi la vita senza che ne fosse conscio. In treno, infatti, incappammo in un posto di controllo ed io passai indisturbata perché ero con il tedesco.
Fu gentile, Mi riaccompagnò nello scompartimento e mi salutò, ignaro di cosa avesse trasportato.
La vita della staffetta era questa ed ancora l’aiuto ed affiancamento ai gappisti quando necessario e richiesto. Lasciata la casa dei Masi, abitai in una stanza di un appartamento al pianterreno della Cirenaica, vuoto perché la famiglia era sfollata, (ora via Bentivogli). La finestra con le inferriate con i vetri aperti serviva all’occorrenza per depositare armi e bombe da prelevare per un’azione o da depositare ad azione compiuta, compito che spettava a me.
Rimasi a Bologna fino alla seconda metà del giugno 1944, quando “Luigi” (Alcide Leonardi), nostro
comandante di Piazza, mi disse di avere saputo da una fonte che ero ricercata dai fascisti: dovevo lasciare la città. Ricordo la sera prima della partenza quando in casa di “Paolo” (Gianni Martini) in via del Pratello salutai i miei compagni.
Andai a Modena. Mi presentarono a “Gino” (Italo Scalambra) della 65a Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” e divenni la staffetta del comando. Presi il nome Vera. Piano piano imparai a conoscere la città ed i paesi della provincia modenese che visitavo giornalmente in sella alla mia fedele bicicletta.
Trasportavo armi, munizioni e propaganda dalla città ai paesi e viceversa e consegnavo gli ordini ai vari distaccamenti per singole azioni di guerra e sabotaggio.
Anche qui conobbi i partigiani giovani e meno giovani. Vorrei ricordare: Omar Bisi, Marcello Sighinolfi “Mirko”, i fratelli Lugli e Baroni ed altri i cui nomi mi sfuggono.
Ed ancora Walter Tabacchi, nostro artificiere cui è intitolata la brigata, torturato e ucciso. Carmen, la mia socia nelle “passeggiate in bici”, Aurora, nostra dattilografa nonché staffetta e poi i titolari dei negozi modenesi che fungevano da recapito per la propaganda. Ma non posso non menzionare le donne che mi hanno ospitato a casa loro.
L’operaia della Manifattura Tabacchi, presentandomi come una cugina lontana, mi trattava come una figlia. Di fronte alla nostra casa abitava il famigerato torturatore dell’Accademia Militare di Modena, tenente Solieri con la moglie. Spesso ci trovavamo assieme nel rifugio a parlare, ma non sospettò mai di me. Nei giorni della Liberazione fuggì e si perdettero le sue tracce.
Le coraggiose donne dei casolari contadini che mi accoglievano materne. Erano madri, sorelle, spose dei partigiani, spesso staffette anch’esse impegnate nell’attività di sostegno alla lotta armata. Ho scordato i loro nomi, ma non il loro coraggio e la dedizione convinta da sempre che la Resistenza non poteva fare a meno del loro apporto.
Gigi e Ilva, marito e moglie, operai nella cui casa ho vissuto parecchio tempo, gentili, disponibili, fraterni. Per un periodo, tutto il comando fu collocato in una palazzina rimasta disabitata, di fronte ad una caserma di “brigate nere”. Noi eravamo in quattro: due uomini e due donne (Gino, Brunetti, Aurora ed io). Ci fingevamo coppia di sposi sfollati. Erano gentili: specie con me e Aurora.
Man mano che passavano i giorni diventava sempre più difficile lavorare in città: posti di blocco, rastrellamenti, intimazioni di fermo anche ai singoli. Io fui fermata parecchie volte e me la cavai anche senza documenti. Spesso mi facevo passare per una donnina allegra, senza fissa dimora. Solo nel tardo autunno 1944 ebbi documenti, naturalmente falsi.
C’era tanta paura dentro di me, ma non la esternavo: forse questo era coraggio. Nell’autunno 1944 venne scoperto il nostro magazzino di armi e munizioni. Arrestarono Walter, trovarono i nomi di “Gino” e “Vera” e ci cercarono. Non conoscevano i nostri connotati: furono arrestati parecchi, specie donne, tra le quali la Carmen.
Cercarono di individuare anche la “Vera” ma non ebbero successo.
Verso la fine dell’anno 1944 passai al CUMER. Il mio compito era l’individuazione della dislocazione dei mezzi corazzati, postazioni dei tedeschi, trasmissione degli ordini, accompagnamento degli inviati alleati paracadutati assieme ai lanci (che spesso al posto di armi contenevano sigarette e cioccolata), incontro con i compagni di altre città da accompagnare ai recapiti clandestini del comando in continuo cambio di luogo.
Per tutti ricordo Sante Vincenzi, ucciso il giorno prima della Liberazione di Bologna.
I primi mesi del 1945 furono pieni di ansie, di attesa dell’avanzata alleata che non arrivava. Furono mesi di continui attacchi partigiani alle postazioni dei tedeschi e dei fascisti; furono tempi in cui molti nostri compagni persero la vita. E arrivò aprile. Davanti all’avanzata alleata, i tedeschi si ritiravano, i fascisti fuggivano, i partigiani di montagna e pianura intensificavano
gli attacchi alle retrovie.
Mi ricordo Modena il 19 e 20 aprile. Deserta. Qualche soldato tedesco e qualche franco tiratore repubblichino da snidare. Il 22 aprile l’arrivo degli alleati in una città già del tutto liberata.
È finita la guerra. Pace. Il tripudio di gioia della gente scesa per le strade.
Io avevo appena compiuto 19 anni.

1 commento:

  1. Bellissimo articolo peccato che sia stato interamente copiato da un altro sito storiedimenticate.wordpress.com

    Per correttezza quando si copia un articolo si dovrebbe specificare la fonte di provenienza.

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