lunedì 31 dicembre 2012

Vinka Kitarovic – Nome di battaglia Lina (nel Bolognese) e Vera (nel Modenese)

Vinka Kitarovic
Ieri, 26 dicembre, è venuta a mancare, all’età di 86 anni, Vinka Kitarovic di origini croate, partigiana, che per il suo ruolo nella Resistenza ottenne il riconoscimento militare di capitano.
Segue una brevissima biografia del suo trascorso partigiano. Ho conosciuto Vinka in occasione di un incontro con gli studenti della scuola media. Era una persona che si era dedicata alla memoria sempre disponibile per parlare della sua esperienza con i giovani perché il sacrificio di tanti compagni e compagne in quegli anni non vada disperso. Proprio da lei queste parole assumevano un significato più profondo, perché scelse di combattere il nazifascismo in Italia, paese dove era stata deportata e non rientrare per combattere nella sua nazione nativa la Jugoslavia. Lei da straniera ha contribuito alla Liberazione, alla rinascita del nostro paese. Il tempo è inclemente e purtroppo un ennesimo testimone ci ha lasciato.
Biografia
Nasce il 5 aprile 1926 a Sebenico (Jugoslavia). Frequentò il 6° anno di ginnasio secondo l’ordinamento scolastico in atto in Jugoslavia.
Studentessa, aderì all’Unione della gioventù comunista (SKOJ) alla fine del 1942. Stante l’occupazione italiana della regione, venne arrestata per attività di opposizione dalla polizia fascista, a Sebenico, nell’autunno 1942.
Dopo quindici giorni di carcere, assieme ad altre due connazionali arrestate per motivi politici anch’esse, venne tradotta in Italia, a Bologna, e rinchiusa in una casa di rieducazione per minorenni, minorate e prostituite.
Attraverso una guardiana dell’istituto animata, da sentimenti antifascisti, si collegò con i comunisti Linceo Graziosi e Giorgio Scarabelli. Con questi concertò la fuga dall’istituto che realizzò, assieme ad una delle due compagne jugoslave, agli inizi dell’ottobre 1943, approfittando del trambusto accaduto durante un bombardamento aereo.
Tramite la trafila clandestina venne allogata in casa colonica a Zola Predosa. Di qui salì in montagna, sopra Monte San Pietro, per collaborare ad un tentativo di insediamento partigiano nella zona; tentativo fallito per via di una delazione. Rientrò a Zola Predosa e poi si nascose presso la residenza dei fratelli Gianni, Giacomino e Vincenzo Masi. Dal febbraio al giugno 1944 svolse attività, in qualità di staffetta, nella 1a brg GAP Gianni Garibaldi. Ricercata dalla polizia fascista sfuggì all’arresto trasferendosi nel modenese. Venne inserita nel comando della 65a brg Walter Tabacchi della 2a div Modena Pianura e lavorò a stretto contatto col comandante Italo Scalambra. Agli inizi del 1945 venne designata componente dell’ufficio di collegamento del CUMER a Modena. Congedata con il grado di capitano.
La sua testimonianza pubblicata nel 1980
Essendo stata un’internata politica — sono di nazionalità iugoslava — nell’autunno del 1943, dopo il 25 settembre, ebbi occasione di incontrarmi con Giorgio Scarabelli e Linceo Graziosi, tramite una conoscente di quest’ultimo che fungeva da sorvegliante nel luogo della mia detenzione.
Quale fatto, dunque, e quale momento politico mi sembrasse più significativo — riferendoci alla situazione politica, italiana — mi riesce difficile dire, appunto perché la realtà italiana di allora io la conobbi dietro le « sbarre ». Personalmente aderii alla Resistenza italiana, in quanto nella stessa ritrovavo sia il pensiero, sia il fine che erano alla radice del movimento di Resistenza del mio Paese. Gli italiani insorgevano contro il nazifascismo, che opprimeva il mio popolo, e mi sembrò quindi la cosa più logica e più naturale unirmi ad essi nella lotta contro il nemico comune.
Appunto perché ero una straniera, e per di più giovanissima, sinceramente credo che, se volessi analizzare i miei Sentimenti di allora e forse anche di oggi — il fatto di maggior interesse politico per me fu, e rimane tutt’ora, l’unità e la crescente partecipazione delle genti italiane al movimento di liberazione. Il fattore politico per me si affianca al risveglio della dignità umana del popolo e al riscatto dei valori che differenziano l’uomo da altri esseri viventi e quindi il movimento di liberazione e la Resistenza al nazifascismo sono parti non solo materiali, ma innanzitutto ideologiche ed etiche. Che lo stesso poi scaturisca in una serie di momenti più significativi o più decisamente circoscritti, rimane per me una conseguenza logica del pensiero che creò il movimento partigiano non solo italiano, ma anche internazionale.
Non so se ho risposto alle domande ma, onestamente, se voglio esser la partigiana della verità, così come allora cercai di essere degna della fiducia dei miei compagni di lotta, non posso rispondere in modo differente. Forse è dovuto anche al fatto che io facevo parte della schiera delle « staffette partigiane » operanti in pianura e in città, dove il fattore più importante era il contatto sociale.
Queste ritengo siano state le cause che mi hanno portato a militare nelle file della Resistenza italiana e sono le stesse che spiegano a me il perché trovai tanto naturale unirmi ai compagni italiani e a lottare assieme a loro.
Essere una staffetta partigiana non implicava la partecipazione diretta ad una determinata azione, ma un’attività di affiancamento, di collegamento, di sostegno.
Sono stata una staffetta della 7a GAP nel periodo febbraio-giugno 1944 e in seguito staffetta del comando della 65a brigata « Walter Tabacchi » di Modena e nell’ufficio di collegamento del CUMER, sempre a Modena.
Per l’attività da me svolta i ricordi e le emozioni non si possono scindere in quelle « bolognesi » e in quelle « modenesi », ma sono ricordi e sentimenti di un’epopea partigiana che non conosce confini territoriali.
Ho già ricordato che l’attività di una staffetta si differenzia da quella normale attribuita ad un partigiano: è un’attività che non scaturisce (almeno per me) in determinate azioni di guerra (anche perché ho sempre lavorato presso i comandi e nelle città), ma s’intreccia e procede con queste, non coincidendo mai totalmente con il momento dell’azione partigiana. Questo non vuole dire che i ricordi e le emozioni siano mancate, erano invece differenti da quelle di un episodio particolare di guerra combattuto con le armi.
Le emozioni di diretta partecipazione che provai néU’esplicare il lavoro affidatomi si riferiscono a momenti particolari di pericoli, di ansie puramente personali e non credo quindi giusto identificarle con un determinato episodio di guerriglia partigiana. Se ai fini di un’« epopea partigiana » possono servire non solo le date ed i fatti, ma anche l’intensità di emozioni e di sentimenti che accompagnarono quel periodo, allora forse, la « staffetta partigiana » ne possiede in buona misura. Ma è inutile chiederle di precisare il momento più intensamente emozionante, il ricordo più vivo, perché ogni momento nel suo ricordo vive con una intensità che non ha misura.
Sono ricordi di uomini e di donne, di compagni di lotta con i quali ci si incontrò, con cui si studiarono i particolari di una determinata azione, ai quali si consegnarono le armi, gli ordini, le informazioni, la stampa; coi quali ci si rallegrò delle vittorie riportate e ci si rattristò sulla durezza della guerra e dell’oppressione.
Sono ricordi insomma di sogni comuni per un mondo libero da guerre e da oppressioni. E spesse volte questi uomini e donne mancarono all’appuntamento seguente e, magari, la staffetta fu testimone diretta e muta del loro arresto, quando non capitò di rivedere i compagni freddi e immobili nella morte. Quali di questi ricordi è più o meno intenso? Io non posso misurarli. Ogni uomo, ogni donna, nel mio ricordo occupano lo stesso spazio: non c’è differenza.
La sua autobiografia a puntate pubblicata nel 2009 sul periodico Resistenza
Avevo quindici anni
L’opposizione agli invasori per difendere l’indipendenza della patria, la cultura (e la lingua), la dignità personale. Arresto per antifascismo e deportazione in Italia, nell’Istituto di rieducazione di Bologna.
Mi ricordo quell’inizio della primavera del 1941. Splendide giornate serene riscaldate dal tepore dei raggi del sole. La vita era bella ed io tra poco avrei compiuto 15 anni.
Frequentavo il ginnasio, ero felice. Avevo i miei amici, avevo tutta mia la bellezza della mia terra, della mia città; avevo la mia famiglia, l’affetto dei fratelli tanto più grandi di me e del mio fratellino, avevo l’amore dei miei genitori.
La famiglia era modesta: anche se priva di ricchezza abbondava il calore dell’affetto.
Il babbo è stato il mio primo grande amico. Da piccola, tenuta sulle sue ginocchia, lo ascoltavo raccontare, tra storia e leggenda, gli eventi passati del nostro paese – Jugoslavia – nel tempo una terra travagliata, assoggettata a stati più forti (Turchia, Austria), sfruttata ma mai domata. Mi ha insegnato ad amarlo e di non dubitare mai e lottare per la propria dignità, umanità: avere speranza per il futuro.
Aspettavo la fine dell’anno scolastico per godere il mio mare Adriatico, nuotando e veleggiando tra le isole con gli amici. Questo era il mio mondo all’inizio della primavera del 1941, bello e spensierato.
Quando la prima domenica dell’aprile, durante la messa nell’antica cattedrale di San Giacomo in cui lavorarono Giorgio il Dalmata ed altri architetti italiani – la città vanta nel suo patrimonio monumentale il citato duomo (1431-1555), la chiesa di San Francesco con attiguo convento (1300); la chiesa di San Giovanni con orologio tipo turco e la scalinata esterna che sembra un pizzo di pietra; la chiesa ortodossa e la rinascimentale Loggia Grande del Sanmicheli di fronte alla cattedrale stessa – alla quale noi studenti eravamo obbligati ad assistere, il vescovo interruppe la preghiera e voltandosi verso di noi disse: stamattina all’alba gli aerei tedeschi hanno bombardato Belgrado, si temono migliaia di morti.
Rimanemmo frastornati, si sentivano voci: è la guerra!
Incredula, senza capire del tutto cosa significasse la guerra, tornai a casa. I genitori erano silenziosi e preoccupati: mio fratello Ivo lavorava a Smeredevo, la città industriale vicina a Belgrado, io capii ed ebbi paura per lui. Man mano che le ore passavano venimmo a sapere del crollo dello Stato, dello sfacelo dell’esercito. I soldati disertavano, gettavano le armi, molti però le seppellivano e tornavano a casa. Io pregavo per il fratello.
Seppi che la Jugoslavia veniva occupata dalle truppe tedesche ed italiane e divisa. Si parlava
di violenze, di morti.
La mia città, Sibenik, era ed è tuttora un porto militare ove erano ancorate le navi da guerra. Arrivarono gli aerei tedeschi, gli Stukas, a bombardare e mitragliare le navi ed il porto.
Fortunatamente alla città furono risparmiate le distruzioni gravi.
Trascorsero due-tre giorni di caos: senza governo, senza esercito, la gente aspettava trepidando. Poi alla sera arrivarono camion zeppi di soldati: erano italiani. Immediatamente il giorno dopo fu emanato il coprifuoco: dal tramonto all’alba successiva vietato uscire di casa. Si sentiva nella notte il movimento di mezzi corazzati e cannoni.
Mi ricordo che la prima sera del coprifuoco il babbo tardava a rientrare a casa; la mamma era allora agitata sapendolo poco ben disposto verso gli italiani, contro i quali combattè prima nella Grande Guerra 1915-1918 quale sottufficiale della marina austro-ungarica e nel periodo successivo 1918-1921 quando l’esercito italiano venne ad occupare la nostra città.
Al suo rientro a tarda ora, essa lo rimproverò di incoscienza e lui, il mangiaitaliani, le disse: ho visto dei giovani soldati, stanchi, impolverati, chiederci da bere e qualcosa da mangiare e siccome mastico qualche parola di italiano li ho accompagnati verso i luoghi in cui potessero ristorarsi. Erano così giovani, li vedo come figli. Io ascoltavo le parole di mio padre e non le ho mai dimenticate perché le sento ancora come una raccomandazione che innanzitutto non bisogna perdere il senso di umanità.
La spensieratezza dei miei quindici anni giorno dopo giorno scompariva.
A seguire il coprifuoco arrivò il razionamento.
I viveri scarseggiavano, si conobbe la fame, compariva il mercato nero. Le famiglie non ricche, come la nostra, finiti i pochi risparmi ed anche perché la pensione di papà era ormai incerta, vendevamo tutto il possibile per sfamarci. Scoprii un giorno che i miei si decurtavano quel poco della loro razione affinché io e mio fratellino di dodici anni potessimo alimentarci di più. Mi ribellai, li costrinsi a mangiare in mia presenza, sotto la minaccia non mangiare anch’io.
A scuola, noi studenti non eravamo più allegri: c’era nell’aria un’attesa di qualcosa. Una mattina sbarcarono le camicie nere italiane, una masnada di energumeni con le maniche rimboccate, stringendo in una mano il manganello e nell’altra una bottiglia. Così feci la conoscenza con i fascisti.
Marciavano verso si giardini e il centro città cantando a squarciagola. Lungo il percorso chi non salutava veniva percosso e obbligato ad ingurgitare il contenuto delle bottiglie. Seppi che contenevano olio di ricino ed un altro intruglio della cui qualità non sono certa. Spaccavano le vetrine e le insegne dei negozi scritte coi caratteri della nostra lingua. Noi giovani riuscivamo a sottrarci a quella violenza fuggendo, ma gli anziani no.
Mi chiedevo: dunque questi barbari sono italiani, ma allora quello che ho studiato dell’Italia, il paese delle arti, della poesia, il paese di Dante, Petrarca, Leonardo ed altri, dove sta? Era un inganno? E poi vennero nelle scuole.
Pretesero che studiassimo solo la lingua italiana. Pochi di noi la conoscevano.
Minacce, intimidazioni. E allora in noi, anche in me, accanto alla paura, subentrò l’indignazione, la ribellione, l’odio per ciò che ci veniva imposto.
Non volevamo rinnegare origini, cultura.
Ci fu chi bruciò i testi obbligatori in italiano, rischiando rappresaglia.
Iniziarono riunioni clandestine, ed imparammo il significato di fascismo e nazismo. Da qui la resistenza di noi studenti, dapprima passiva reagendo col silenzio duro alle ingiunzioni e via via sempre più attiva in varie forme, come scrivendo di notte sui muri parole di lotta e di speranza. Io, come tanti altri, mi iscrissi a SKOJ, l’Unione della gioventù comunista jugoslava.
Mio fratello Ivo tornò a casa percorrendo a piedi l’enorme distanza da Belgrado a Sebenico e parlò della violenza, della sofferenza inflitta al nostro popolo. Restò per poco, sparì, era diventato partigiano: si andava formando il nostro esercito di liberazione.
Il terribile scenario portato dagli stranieri era fatto di arresti, deportazioni, fucilazioni, incendi e massacri nei villaggi.
A dare manforte ai nazifascisti erano gli ustaša, i feroci ustascia del venduto Ante Pavelic, pupillo di Mussolini, addestrati in Italia. Era il periodo in cui i giovani non erano più giovani e i vecchi non potevano fare i vecchi. C’erano momenti in cui piangevo per la mia giovinezza rovinata, per i sogni infranti, ma nello stesso tempo non ho mai voluto cedere: pensavo a come poter entrare in una formazione partigiana.
Gli studenti erano sospettati di antifascismo, talché nelle case cominciarono le perquisizioni. A me sequestrarono le innocenti fotografie dei periodi felici.
Una sera dell’ottobre 1944, dopo il coprifuoco, sentimmo bussare alla porta. Era la polizia che cercava me e mi portò via. I miei genitori imploravano in lacrime, ma è una bambina, ha solo sedici anni, perché? Nulla da fare. In carcere trovai altre dieci compagne di classe. Pare che nella casa di una di esse fosse stata trovata una lista coi nostri nomi, per la polizia assai sospetta.
L’interrogatorio a base di lusinghe e di minacce non dette alla polizia italiana i risultati che si attendeva, Noi ragazzine fummo separate, io finii in una cella di metri tre per quattro, dove c’era la mamma di un partigiano ed in cui rinchiusero altre cinque mie compagne.
Seguirono giorni tetri. I genitori li vedemmo solo il giorno prima della nostra deportazione in Italia.
Inimmaginabile la disperazione loro e nostra. La mattina seguente, era metà ottobre, il cellulare Crna Marica (Maria nera) come lo chiamavamo noi, ci trasportò – eravamo undici dai sedici ai diciassette anni – al porto.
L’ultimo ricordo della mia città lo ebbi, seppure al prezzo di diversi ceffoni, sbirciando dalle fessure e vidi tutta la riva piena di gente tenuta a bada dai soldati con i fucili spianati. Aveva saputo ed era venuta a rincuorarci.
Non si può dimenticare una visione così. Circondate dai poliziotti ci fecero entrare nella stiva della nave, non permettendoci di salutare, anche con un solo sguardo affettuoso, la nostra cara Sibenik. Poi rotta su Trieste.
Scese dalla nave a Trieste fummo separate e destinate: quattro a Roma, quattro a Milano e tre a
Bologna. Io fui destinata a Bologna con Marija Separovic e Visnja Gavela. Di Trieste vidi un pezzo di marciapiede prima che i poliziotti ci infilassero in macchina.
Lunghe ore di viaggio; ognuna mi allontanava sempre più dal mio Paese. Immensa tristezza. Era la terza settimana di ottobre 1942.
A notte, ancora fonda, arrivammo in una città che poi seppi essere Bologna, e qui fummo consegnate ad un uomo e ad una donna. Eravamo nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate che comprendeva anche un reparto di minorati psichici e un altro di epilettici, ed ora anche noi.
L’istituto a conduzione privata, si trovava in Via della Viola a Borgo Panigale. Le bambine e le ragazze traviate, i minorati e le guardiane – un mondo a noi completamente sconosciuto e angosciante – ci guardavano con sospetto ma anche con curiosità, perché presentate come “pericolose sovversive”ed in più non parlavamo italiano.
I titolari dell’istituto, la famiglia Piazzi: padre, un figlio ed una figlia. I figli bravi fascisti. Il padre Angelo era diverso. Ci guardava con compassione e nel tempo trovammo in lui molta comprensione. Era il primo italiano che si differenziava dai fascisti, finora conosciuti. Capimmo che forse vi era diversità tra un italiano e un fascista.
Nei lunghi mesi del 1943 scoprimmo che anche tra le guardiane c’era differenza.
Solo ai primi mesi avemmo qualche notizia dalle nostre famiglie, poi più niente. Visnja Gavela, di famiglia ricca fu graziata e mandata a casa. Rimanemmo in due. Tutte le volte che, orecchiando, sentivamo sussurrare o vedevamo i visi neri dei fascisti capivamo che la guerra per loro andava male: era una gioia per noi.
25 luglio 1943, caduta del fascismo, speranza di poter tornare a casa; 8 settembre 1943, armistizio Italia-Alleati, stessa speranza ma vana. Caos Italia occupata dai tedeschi, repubblica di Salò. Bombardamenti. I tedeschi venivano in istituto e noi avevamo il timore di finire in Germania.
Poi un giorno una guardiana si dichiarò antifascista affermando di poterci mettere in contatto con altri antifascisti se riuscivamo a fuggire. Accettammo subito e la speranza rinacque.
Durante una delle poche passeggiate fuori dall’istituto, lungo Via Agucchi, ci incontrammo con un giovane che ci indicò il luogo dove trovarlo se riuscivamo a fuggire.
Il 5 ottobre 1943 ci fu un bombardamento nella nostra zona. Fu colpita la centrale elettrica confinante con l’istituto, danneggiato anch’esso. Una visione apocalittica: fumo, polvere, cancelli scardinati, urla, terrore.
Cogliemmo l’occasione per fuggire. Correndo intravidi il vecchio Angelo Piazzi, che senza dubbio capì e ci salutò con la mano.
Nel luogo fissato trovammo il giovane di cui purtroppo non ho mai saputo il nome. Ci accompagnò in una casa, credo a Longara di Calderara di Reno, dove incontrammo Linceo Graziosi, Giorgio Scarabelli e Bruno Tubertini, da poco liberi dopo anni di carcere fascista. Ci prospettarono due possibilità: tentare di raggiungere la Jugoslavia, tenendo conto del caos generale che imperava in quel periodo, promettendo di aiutarci; oppure rimanere in Italia con loro e combattere il fascismo.
Immediatamente, nonostante il desiderio di rivedere le nostre famiglie, decidemmo di rimanere qui perché convinte che ovunque si combattesse il nazifascismo avremmo combattuto anche per la nostra gente lontana.
Fummo accompagnate in una casa di contadini a Zola Predosa. Non ho mai saputo i loro nomi ma l’accoglienza fu piena di simpatia e di generosità da parte delle donne che ci accolsero; non
lo dimenticherò mai. Conoscevano il rischio che correvano ma non si tirarono mai indietro.
Il giorno dopo ci trasferimmo in montagna, credo Monte San Pietro, dove trovammo anche alcuni uomini. Era l’inizio del movimento partigiano.
C’erano anche i prigionieri alleati fuggiti, accolti dai contadini, un po’ distanti da noi. Io e Marija portavamo i pasti ai prigionieri ma un giorno, mentre aspettavamo che finissero il pranzo, mi sentii un fucile nella schiena: erano militi italiani. Non so come, con il mio italiano imperfetto, raccontai che eravamo profughe siciliane, fuggite davanti all’avanzata alleata senza documenti. Meraviglia! Mi credettero ordinandoci di presentarci in caserma il giorno dopo: naturalmente dobbiamo ancora andarci.
I prigionieri, sentendo le voci, tentarono di fuggire mentre i militi corsero dietro loro e noi due velocemente tornammo dai compagni raccontando il fatto. Essi capirono di essere stati traditi. Fu deciso di sciogliere il gruppo e ognuno doveva tornare al suo luogo di origine.
Ma quale era il nostro luogo di origine?
Ricordo la lunga camminata notturna per sentieri sconosciuti evitando i luoghi abitati e, non so come, al mattino eravamo a Zola Predosa.
Riconobbi la casa, bussai, ci accolsero, ci ascoltarono e avvisarono i compagni.
Tornammo a Bologna, accolti a casa dei fratelli Baffè: Ottavio e Argentina.
Persone meravigliose, affettuose, piene di umanità.
L’odio provato per gli italiani al mio arrivo stava scomparendo. Nelle persone finora incontrate, dopo la fuga, riconobbi gli stessi sentimenti della mia gente e mi sentii tra amici.
Imparai ad andare in bicicletta.
Nel frattempo ci trasferirono in via Crociali presso la famiglia Masi dove conobbi i figli: Giacomino, Vincenzo e Gianni (quest’ultimo arrestato durante lo sciopero alla Ducati del 1 marzo 1944 e deportato in Germania dove morì), la sorella Lina e la madre. Non ho parole per esprimere la riconoscenza a questa famiglia di operai antifascisti.
Essi sono un ricordo importante della mia vita.
I primi passi della Resistenza. Mi accompagnavo con un giovane, che poi seppi essere Ermanno Galeotti, primo partigiano caduto, Medaglia d’Argento al Valor Militare. Facevamo la ricognizione degli obiettivi militari e strategici, i possibili atti di sabotaggio, pedinamenti dei gerarchi fascisti, qualche trasporto delle scarse armi che allora possedevamo. Fingevamo di essere una coppia ed eravamo tanto giovani da non suscitare sospetti.
Io avevo intanto cominciato a parlare discretamente italiano, la Marija no. Spesso fingeva di essere sordomuta. Alla fine di gennaio la Marija andò a Villanova di Castenaso, come staffetta della SAP e si fece onore. Io rimasi a Bologna nella allora costituenda VII brigata GAP.
Mi chiamai Lina.
La bicicletta era la mia compagna fedele. Sul manubrio una sporta e dentro, coperta da stracci, armi, munizioni, ordini, materiali di propaganda.
Piano piano conobbi altri partigiani, in prevalenza giovani come me o poco più adulti. Per tutti voglio ricordare “Aldo” (Bruno Gualandi), “Paolo” (Giovanni Martini), “Gianni” (Massimo Meliconi, Medaglia d’Oro al Valor Militare), “Italiano” (Renato Romagnoli) e anche “William” (Lino Michelini).
Staffetta dei Gap di centro, nel tempo imparai i luoghi ove incontrarci, prelevare o riportare armi, ordini, propaganda.
Mi ricordo un gelido giorno del febbraio 1944, io e “Sassi” (Sonilio Parisini), partimmo per la montagna bolognese ed arrivammo a Castiglione dei Pepoli e a Baragazza a prelevare gli esplosivi per le bombe. Mi ricordo la gelida notte stellata, la corriera sgangherata che ci riportò a Bologna.
Mi ricordo “Pietro” (Diego Orlandi), nostro artificiere che incontravo presso la chiesa del
Sacro Cuore, oltre il ponte di Galliera, che mi consegnava le armi e le bombe da trasportare.
Mi ricordo la pesante bomba destinata a Ferrara per un atto di sabotaggio, che faticavo a trasportare correndo verso il treno e un soldato tedesco che insistette ad aiutarmi. Salvandomi la vita senza che ne fosse conscio. In treno, infatti, incappammo in un posto di controllo ed io passai indisturbata perché ero con il tedesco.
Fu gentile, Mi riaccompagnò nello scompartimento e mi salutò, ignaro di cosa avesse trasportato.
La vita della staffetta era questa ed ancora l’aiuto ed affiancamento ai gappisti quando necessario e richiesto. Lasciata la casa dei Masi, abitai in una stanza di un appartamento al pianterreno della Cirenaica, vuoto perché la famiglia era sfollata, (ora via Bentivogli). La finestra con le inferriate con i vetri aperti serviva all’occorrenza per depositare armi e bombe da prelevare per un’azione o da depositare ad azione compiuta, compito che spettava a me.
Rimasi a Bologna fino alla seconda metà del giugno 1944, quando “Luigi” (Alcide Leonardi), nostro
comandante di Piazza, mi disse di avere saputo da una fonte che ero ricercata dai fascisti: dovevo lasciare la città. Ricordo la sera prima della partenza quando in casa di “Paolo” (Gianni Martini) in via del Pratello salutai i miei compagni.
Andai a Modena. Mi presentarono a “Gino” (Italo Scalambra) della 65a Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” e divenni la staffetta del comando. Presi il nome Vera. Piano piano imparai a conoscere la città ed i paesi della provincia modenese che visitavo giornalmente in sella alla mia fedele bicicletta.
Trasportavo armi, munizioni e propaganda dalla città ai paesi e viceversa e consegnavo gli ordini ai vari distaccamenti per singole azioni di guerra e sabotaggio.
Anche qui conobbi i partigiani giovani e meno giovani. Vorrei ricordare: Omar Bisi, Marcello Sighinolfi “Mirko”, i fratelli Lugli e Baroni ed altri i cui nomi mi sfuggono.
Ed ancora Walter Tabacchi, nostro artificiere cui è intitolata la brigata, torturato e ucciso. Carmen, la mia socia nelle “passeggiate in bici”, Aurora, nostra dattilografa nonché staffetta e poi i titolari dei negozi modenesi che fungevano da recapito per la propaganda. Ma non posso non menzionare le donne che mi hanno ospitato a casa loro.
L’operaia della Manifattura Tabacchi, presentandomi come una cugina lontana, mi trattava come una figlia. Di fronte alla nostra casa abitava il famigerato torturatore dell’Accademia Militare di Modena, tenente Solieri con la moglie. Spesso ci trovavamo assieme nel rifugio a parlare, ma non sospettò mai di me. Nei giorni della Liberazione fuggì e si perdettero le sue tracce.
Le coraggiose donne dei casolari contadini che mi accoglievano materne. Erano madri, sorelle, spose dei partigiani, spesso staffette anch’esse impegnate nell’attività di sostegno alla lotta armata. Ho scordato i loro nomi, ma non il loro coraggio e la dedizione convinta da sempre che la Resistenza non poteva fare a meno del loro apporto.
Gigi e Ilva, marito e moglie, operai nella cui casa ho vissuto parecchio tempo, gentili, disponibili, fraterni. Per un periodo, tutto il comando fu collocato in una palazzina rimasta disabitata, di fronte ad una caserma di “brigate nere”. Noi eravamo in quattro: due uomini e due donne (Gino, Brunetti, Aurora ed io). Ci fingevamo coppia di sposi sfollati. Erano gentili: specie con me e Aurora.
Man mano che passavano i giorni diventava sempre più difficile lavorare in città: posti di blocco, rastrellamenti, intimazioni di fermo anche ai singoli. Io fui fermata parecchie volte e me la cavai anche senza documenti. Spesso mi facevo passare per una donnina allegra, senza fissa dimora. Solo nel tardo autunno 1944 ebbi documenti, naturalmente falsi.
C’era tanta paura dentro di me, ma non la esternavo: forse questo era coraggio. Nell’autunno 1944 venne scoperto il nostro magazzino di armi e munizioni. Arrestarono Walter, trovarono i nomi di “Gino” e “Vera” e ci cercarono. Non conoscevano i nostri connotati: furono arrestati parecchi, specie donne, tra le quali la Carmen.
Cercarono di individuare anche la “Vera” ma non ebbero successo.
Verso la fine dell’anno 1944 passai al CUMER. Il mio compito era l’individuazione della dislocazione dei mezzi corazzati, postazioni dei tedeschi, trasmissione degli ordini, accompagnamento degli inviati alleati paracadutati assieme ai lanci (che spesso al posto di armi contenevano sigarette e cioccolata), incontro con i compagni di altre città da accompagnare ai recapiti clandestini del comando in continuo cambio di luogo.
Per tutti ricordo Sante Vincenzi, ucciso il giorno prima della Liberazione di Bologna.
I primi mesi del 1945 furono pieni di ansie, di attesa dell’avanzata alleata che non arrivava. Furono mesi di continui attacchi partigiani alle postazioni dei tedeschi e dei fascisti; furono tempi in cui molti nostri compagni persero la vita. E arrivò aprile. Davanti all’avanzata alleata, i tedeschi si ritiravano, i fascisti fuggivano, i partigiani di montagna e pianura intensificavano
gli attacchi alle retrovie.
Mi ricordo Modena il 19 e 20 aprile. Deserta. Qualche soldato tedesco e qualche franco tiratore repubblichino da snidare. Il 22 aprile l’arrivo degli alleati in una città già del tutto liberata.
È finita la guerra. Pace. Il tripudio di gioia della gente scesa per le strade.
Io avevo appena compiuto 19 anni.

sabato 29 dicembre 2012

Anche l'A.n.p.i. di Pianoro piange la compagna Vinka .
Ieri, 26 dicembre, è venuta a mancare, all’età di 86 anni, Vinka Kitarovic di origini croate, partigiana, che per il suo ruolo nella Resistenza ottenne il riconoscimento militare di capitano.
Nata a Sibenik (Sebenico) il 5 aprile 1926, nella primavera del 1941 frequentava il liceo quando la sua città, importante porto militare, subì i bombardamenti degli aerei tedeschi. Con lo sbarco dei fascisti italiani cominciarono le violenze nei confronti della popolazione civile e fu imposta la lingua italiana nelle scuole. In questo periodo Vinka decise di iscriversi all’Unione della gioventù comunista (SKO).
Nell’ottobre del 1942 fu arrestata dalla polizia e venne deportata in Italia, assieme a due compagne, per essere rinchiusa in un istituto per la rieducazione dei minorenni in via della Viola a Bologna. Li, con l’aiuto di una guardiana antifascista, riuscì a prendere contatto con la Resistenza ed il 5 ottobre 1943, in occasione di un bombardamento sulla città, si diede alla fuga e fu portata a Longara di Calderara di Reno dove conobbe Linceo Graziosi ed altri partigiani. Dopo un tentativo di insediamento partigiano nella zona di Monte San Pietro, scese a Bologna e fu ospitata nella casa della famiglia Masi. Divenne staffetta della 7ª Brigata GAP assumendo il nome di “Lina”. Di questo periodo amava ricordare quando un giorno affaticata dal trasporto di una borsa contenente una pesante bomba destinata a Ferrara fu aiutata a salire sul treno, evitando cosi un improvviso controllo da un gentile soldato tedesco che le salvo la vita inconsapevole di cosa aveva trasportato. Rimase in città fino a metà giugno del 1944 quando dovette lasciare Bologna perché ricercata.
Si recò a Modena dove continuò la sua attività nella Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” cambiando il nome di battaglia in “Vera”. Verso la fine dell’anno fu chiamata ad operare al Comando Unico Militare Emilia Romagna (CUMER) di Modena
con l’incarico di individuare la dislocazione dei mezzi corazzati e delle postazioni tedesche nonché l’accompagnamento di soldati alleati paracadutati in quella zona e la trasmissione di ordini alle varie brigate.Il 22 aprile 1945 era ancora a Modena liberata dai partigiani quando entrarono in città gli alleati anglo-americani.
Anche le donne dell’ANPI la ricordano con grande affetto e sono vicine alla figlia Jadranka. Attualmente faceva parte della Presidenza provinciale dell’ANPI di Bologna e del direttivo dell’ANPPIA.
L’estremo saluto avverrà sabato 29 dicembre all’obitorio della Certosa (Via della Certosa, 16) dalle ore 14:15 alle 15:15. Successivamente la salma sarà trasferita in una sala della chiesa di San Girolamo della Certosa dove, la figura dell’estinta, sarà ricordata dal Presidente dell’ANPI Provinciale William Michelini e dalla figlia Jadranka.

giovedì 27 dicembre 2012

Istituti Storici


Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia
http://www.italia-liberazione.it/
Istituto Provinciale per la Storia del Movimento di Liberazione e dell’Età Contemporanea di Pordenone
http://www.istlibpn.it/
Istituto Storico Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea
http://www.iveser.it
Istituto storico della Resistenza in Toscana
http://www.istoresistenzatoscana.it/
Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea
http://www.istoreto.it/
Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale “Leopoldo Gasparini” di Gradisca d’Isonzo (GO).
http://www.istitutogasparini.it/
Isrebo - Comune di Bologna
Sito ufficiale dell'Istituto per la storia della Resistenza e della societá
contemporanea nella provincia di Bologna.
http://www.comune.bologna.it/iperbole/isrebo/
Istituto Parri Emilia-Romagna
Istituto storico di Bologna intitolato a Ferruccio Parri e che fa parte del circuito dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

http://www.istitutoparri.it/

Associazioni vicine ed omologhe

ANED – Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti
http://www.deportati.it/
ANPPIA – Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti
http://anppia.blogspot.com/
ANEI – Associazione Nazionale Ex Internati
http://www.anei.it/
ANFIM – Associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri caduti per la libertà della Patria
http://www.anfim.it/
AICVAS - Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagnahttp://www.aicvas.org/

Musei

Il Museo dei fratelli Cervi
http://www.fratellicervi.it/
Il Museo audiovisivo della Resistenza di Massa Carrara e La Spezia a Fosdinovo
http://www.museodellaresistenza.it/
Museo virtuale dell’antifascismo e della Resistenza, a cura della Provincia di Arezzo
http://www.memoria.provincia.arezzo.it/

Altre risorse

Resistenza Toscana, sito ufficiale della Federazione Regionale Toscana Associazioni Antifasciste e della Resistenza.
http://www.resistenzatoscana.it/
Crimini di Guerra, banca dati sui crimini contro le popolazioni civili delle truppe di occupazione italiane.
http://www.criminidiguerra.it/
Archivi della Resistenza, dedicato alla lotta di liberazione sulla Linea Gotica occidentale.
http://archividellaresistenza.it/
Squadrone F, dedicato ai paracadutisti italiani alle dipendenze Alleate
http://www.squadronef.it/

Intervista a due Partigiani del Comandante Felice Cascione, l'autore di "Fischia il vento"


Quella che segue è un intervista a Tonino Simonti e Silvano Alterisio, due partigiani che hanno combattuto accanto a Felice Cascione, autore della celebre canzone "Fischia il vento" e loro comandante partigiano. Autori dell'intervista sono Christian Flammia e Andrea Ghirardo impegnati per il recupero del "Casone" dove le canzone venne composta.

"Il tuo nome è leggenda, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s'arruolarono sotto la tua bandiera...": così Italo Calvino ricordava nei suoi scritti la figura di Felice Cascione. In un periodo di profondo decadimento di valori morali ed etici quale quello odierno, l'esempio di Felice Cascione, detto "u megu" (il medico), medaglia d'oro al valor militare alla memoria che sacrificò la sua vita per la libertà della Patria, non va dimenticato.
Nato a Imperia nel 1918, antifascista attivo dal 1940 (fu anche incarcerato per aver partecipato a manifestazioni antifasciste), Cascione si laureò in medicina nel 1943. A partire dall'8 settembre iniziò il suo cammino di partigiano fondando a Magaletto la Prima Brigata partigiana dell'imperiese, che guidò sui monti della Liguria fino al 27 gennaio del 1944, quando trovò la morte ad Alto durante uno scontro con i nazifascisti.
A indirizzarli c'era proprio quel Michele Dogliotti che Cascione aveva fatto prigioniero due mesi prima e che si era rifiutato di fucilare: "Ho studiato venti anni per salvare la vita di un uomo e ora voi volete che io permetta di uccidere?"
Le gesta di Cascione e le circostanze della morte, quando si fece uccidere nel tentativo di salvare un suo compagno, rappresenta una straordinaria pagina di storia, una pagina eroica della storia d'Italia, da tramandare ai posteri.
Nel ricordarlo, convinti che con la storia del passato si possa costruire il nostro futuro, il sogno che abbiamo è quello di recuperare il casone, oggi in stato di abbandono, dove fu scritta la canzone "Fischia il vento", divenuta inno della Resistenza.
Per far questo abbiamo chiesto aiuto a due suoi compagni ancora in vita, affinchè la loro testimonianza metta in luce la personalità del comandante partigiano Felice Cascione.
Tonino Simonti (nome di battaglia Fedor e che faceva parte del distaccamento "Felice Cascione", ci racconta di quei giorni.
"Sono passati tanti anni, a me Cascione è rimasto nel cuore, era un uomo come si deve, con grande dignità. A casa ho molte foto di Felice. Lui era dottore a Porto Maurizio ma non lo conoscevo di persona. Con lui sono stato tre, quattro mesi. Sono salito in montagna sopra Pontedassio il 28 settembre del 1943 e la banda era composta solo da una decina di partigiani. Un uomo così, con il suo altruismo non l'ho mai incontrato. Era avanti cinquanta anni con la testa. La cosa che più mi ha colpito era il trattamento che Cascione riservò ai due prigionieri. Dopo averli salvati da morte sicura, li trattava come se fossero stati partigiani, ci raccomandava sempre che i prigionieri andavano trattati da prigionieri e ci diceva che lui aveva studiato una vita per salvare vite umane e non si poteva permettere di uccidere una persona. Pensate che quando da Oneglia arrivavano le sigarette, ne dava sempre due a testa compreso loro due, divideva con loro il pranzo e le coperte. Non capisco ancora oggi perché abbiano voluto scappare, erano già due mesi che stavano con noi. Vi voglio raccontare due episodi significativi. Una volta una donna della valle ci disse che suo figlio di 5 anni era caduto e si era fatto male ad un piede. Felice prese dal suo zaino i 'ferri del mestiere', scese al paese e curò il bambino. La donna disse a 'u megu' cosa potesse dargli in cambio e lui rispose di portare da mangiare ai suoi uomini che stavano morendo di fame. La donna arrivò con un cesto di castagne e un sacco di altra roba, questo per farvi capire la sua onestà. Un altro episodio: un giorno Cascione ordinò a me a Cigrè di pulire delle patate, ma presi dalla fame, due ce le siamo mangiate prima di portarle a tavola. Felice lo scoprì e ordinò di legarci al palo della chiesa. In un secondo momento, decise di salvarci dalla punizione perché era il giorno di un santo particolare. Ma avevamo tanto rispetto per lui che ci siamo presi una punizione da soli e decidemmo di saltare il pranzo a mezzogiorno, ma 'u megu' dopo una bella ramanzina decise di farci mangiare".
Improvvisamente Tonino cambia registro e ci racconta di Cascione giocatore di pallanuoto. "Era da nazionale e quando tirava i palloni in porta usciva dall'acqua con il ginocchio, era uno spettacolo. Ci teneva molto alla nostra condizione fisica e in montagna ci faceva fare sempre esercizi fisici per rimanere in forma".
Chiediamo a Tonino di raccontarci la giornata fatale.
"Mi ricordo bene quel tragico 27 gennaio, io ero di guardia insieme a Cigrè, erano circa le 6,30 del mattino e faceva un gran freddo. Eravamo in allerta per possibili attacchi tedeschi perché due giorni prima era scappato uno dei prigionieri fascisti catturati nella battaglia di Montegrazie. Il Battaglione tedesco ci attaccò con mezzi pesanti dal basso, nello scontro a fuoco Cascione fu ferito ad una gamba, rifiutò ogni tipo di soccorso per non mettere a repentaglio le nostre vite e per non pregiudicare la nostra ritirata. Ci ordinò di seguire Vittorio Acquarone (suo cugino) e di scappare verso Alto per mettere in salvo la banda. Ci siamo diretti per la mulattiera che portava verso Ormea e quando abbiamo saputo che Cascione era stato ucciso, ci siamo messi a piangere come dei bambini".
Ora parliamo con Silvano Alterisio, "il migliore" come amavano definirlo i suoi compagni, autore con Felice Cascione e Giacomo Sibilla, nome di battaglia 'Ivan', dei versi della canzone 'Fischia il vento' che divenne l'inno ufficiale di tutte le Brigate Garibaldi del Nord Italia.
Gli spieghiamo che l'iniziativa che stiamo portando avanti ha come obiettivo quello di cercare di recuperare i valori della Resistenza che hanno portato a liberare l'Italia e vogliamo far conoscere ai giovani la loro voce.
"Non era così semplice la vita partigiana, perché abbiamo incontrato molti ostacoli e problemi, anche per colpa nostra forse. Siamo stati troppo leggeri e incapaci di gestire il movimento. Abbiamo portato avanti i valori della Resistenza ma non come avremmo dovuto fare. Molti compagni dopo la guerra sono cambiati, all'inizio era una cosa sincera, in seguito sono nate diverse incongruenze. Ultimamente con gioia vedo un recupero di questi valori. Il mio ricordo di Felice Cascione? E' stato effettivamente unico, come lui ce ne erano pochi, era sempre a contatto con i partigiani e pronto ad aiutare gli amici e tutti gli abitanti della zona, era coraggioso e semplice e talmente tanto intelligente che a volte non riuscivamo a comprenderlo".
Ed a proposito di 'Fischia il vento': "Felice oltre ad essere un ottimo comandante era un raffinato poeta, sebbene un po' stonato.. il mio augurio è che riusciate a recuperare il Casone perché ha un enorme valore storico e per quello che riusciamo, io e Tonino cercheremo di aiutarvi. Se ne parla troppo poco di questa storia, dovete andare nelle scuole a raccontarla, bisognerebbe riuscire a fare qualcosa di più di quello che si è fatto fino ad oggi, ora tocca a voi".

Christian Flammia e Andrea Ghirardo

26 dicembre 1944 Imola – Muore dopo le torture subite Silimbani Celso

Silimbani Celso
Silimbani Celso (Nome di battaglia Ricò)
Nasce il 10/9/1898 a Imola. Militò nel btg Rocco Marabini della brg SAP Imola.
Nel settembre 1943 nel giardino della sua casa con l’aiuto di Celso Marabini e del figlio Antonio crea un deposito sotterraneo di armi che furono distribuite al movimento partigiano.
Il deposito rimase celato fino al dicembre 1944 quando le brigate nere, insospettitesi per la continuata frequentazione di partigiani e noti antifascisti, il 19 dicembre 1944 operarono una perquisizione nella sua casa ed in altre abitazioni scoprendo il nascondiglio.

Arrestato con il figlio Antonio, Adolfo Boschi, Amilcare Rossi e Rocco Marabini, e tradotto nella sede della brigata nera, subì percosse e minacce.
Trasferito nel carcere della Rocca, subì sevizie e maltrattamenti tali che il 26 dicembre 1944, tra atroci spasimi, morì tra le braccia del figlio.
Gli è stata conferita la medaglia di bronzo alla memoria con la seguente motivazione:
«Fervente patriota, dedicava tutto se stesso alla lotta di liberazione, assumendo anche il rischioso compito della custodia e della distribuzione delle armi ai partigiani.
Catturato insieme al figlio, subiva, alla presenza di questi, atroci torture fino al sacrificio supremo, affrontato in nome della libertà della Patria
».

martedì 25 dicembre 2012

Senza memoria
Quell'Italia che accetta il revisionismo fascista
Roberto Rossi - L;Unità - 10/10/2012



























Scriveva Luis Sepulveda che «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». La memoria aggrega, è il collante che unisce generazioni, la memoria è la base della storia e del civismo. Ma in Italia la memoria spesso cambia forma, muta la sua pelle, si plasma a seconda della forma e dei contesti. Lascia spazio, alle volte, a rigurgiti di nostalgia che in politica trovano terreno nei movimenti che si rifanno al fascismo. Che non solo vengono tollerati, ma che spesso sono incoraggiati anche dai pubblici amministratori e ufficiali.
Come è successo a Isernia. Dove fra qualche settimana si discuterà l’appello contro una strana sentenza di condanna di cinque uomini e due donne avvenuta il 5 maggio scorso. Strana non tanto per l’entità della pena, otto giorni di reclusione poi trasformati in un’ammenda da 1350 euro per ciascun imputato, quanto per le aggravanti.

I FATTI, IN BREVE
Il 27 ottobre del 2011 nella città molisana si confrontano due gruppi. Da una parte Casa Pound e Gioventù Italiana del Molise, movimenti di estrema destra, dall’altra il Comitato antifascista molisano. Quest’ultimo protesta contro la decisione della Amministrazione provinciale di concedere l’uso di una sala pubblica «alle associazioni neofasciste» che hanno organizzato un incontro pubblico. Per questo chiede e ottiene il permesso dalla questura di poter organizzare un sit in davanti al palazzo della Provincia. C’è forte tensione quel giorno. Alimentata anche dai giornali locali che ipotizzano l’arrivo di black block. Eppure tutto fila liscio. Le disposizioni del comitato per l’Ordine pubblico sono rispettate alla lettera fino a quando un gruppo di antifascisti, circa quaranta, si stacca dal sit-in. Ma fanno pochi metri. Fronteggiati dalla polizia desistono e se ne vanno via cantando. I gruppi, dunque, non vengono a contatto. Ma tanto basta perché la questura identifichi sette del Comitato e li porti davanti a un giudice. La colpa? Aver disatteso le disposizioni della questura, con le aggravanti di aver gridato, come scrive il procuratore Federico Scioli nella richiesta di condanna, «slogan del tipo “il Molise è antifascista” e intonato la canzone “Bella Ciao”».
«Dunque - dice il giuslavorista Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia - nulla è successo se non che un gruppo di manifestanti si era appena mosso e soprattutto aveva cantato, ahimè, Bella Ciao». Ad Isernia, sostiene ancora Smuraglia, «lo Stato dimostra tolleranza per un movimento di fascisti sedicenti “del terzo millennio”, che in quanto tali sarebbero fuori dalla Costituzione, e poi fa la faccia feroce con gli antifascisti che protestano senza aver compiuto alcun atto di rilevanza penale».
Ma in Molise non è solo senza memoria il giudice che ha condannato sette persone per aver cantato una canzone partigiana, non ricordando per altro che l’ideologia fascista in Italia è pur sempre un reato, ma anche la Regione e il suo presidente Michele Iorio. Il quale, il sette agosto scorso, si è affrettato ad assicurare il patrocinio del Molise, come si evince da una nota della presidenza con tanto di numero di protocollo, alla manifestazione commemorativa su «X settembre ’43 - Isernia bombardata» promossa lo scorso otto settembre ancora una volta da Casa Pound e Gioventù Italiana. Una manifestazione che ha visto la partecipazione, tra gli altri, anche di un esponente della repubblica fascista di Salò. «Tutto questo - spiega ancora il presidente dell'Anpi che lo scorso 25 luglio ha lanciato da Gattico (Reggio Emilia) una campagna di contrasto al neo fascismo - trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto i conti con il proprio passato, non ha mai fatto conoscere e analizzato a fondo il fascismo ed è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di revisionismo».
Che come un fiume carsico ogni tanto ritrova la superficie. Il caso di Affile, piccolo comune romano, e del mausoleo dedicato al criminale di guerra Rodolfo Graziani e sovvenzionato dalla regione Lazio con 170mila euro, è solo l’ultimo dei tanti casi. In Abruzzo, ad esempio, regione che pure vanta una tradizione partigiana di spessore (la Brigata Maiella tanto per fare un nome) negli ultimi mesi sono stati segnalati due episodi di revisionismo singolari. Il primo è avvenuto nel comune di Castellafiume (L’Aquila) dove una strada della frazione Pagliara è stata dedicata a Cornelio Di Marzio. Nella targa, una delle poche presenti nel paese dove le vie sono scritte sui muri, si celebrano le sue presunti doti di scrittore e poeta. Ma si omette di dire che Di Marzio è stato uno dei personaggi di spicco del fascismo sia in Italia sia all’estero, e soprattutto che è stato uno dei 100 firmatari delle leggi razziali. E questo sicuramente ha caratterizzato la vita di Cornelio Di Marzio più di quanto i suoi scritti, che nessuno conosce, abbiano mai fatto.

LO ZIO FAMOSO
Tutti conoscono, invece, Gianni Letta, per anni consigliere di Berlusconi nonché sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Letta lo scorso luglio è diventato cittadino onorario di un paese della Marsica che si chiama Aielli. Un omaggio che il sindaco Benedetto Di Censo ha voluto fare alle origini di un politico di spessore. Un atto di ossequio anticipato il 20 agosto 2011 dalla stessa amministrazione comunale che aveva rinominato la piazza principale del paese, piazza Risorgimento, intitolandola a Guido Letta, zio di Gianni, e piazzando a futura e imperituria memoria anche un busto di marmo. Eppure Guido Letta non è conosciuto solo per i suoi rapporti di parentela con l’ex sottosegretario del Consiglio ma anche per essere stato uno dei più ardenti sostenitori del fascismo in Italia. Anche lui figura tra gli autori delle leggi razziali emanate nel 1938 che furono causa di deportazione per migliaia di ebrei e che recentemente Mario Monti ha definito «infami e atroci». Tra l’altro il prefetto Letta fu anche membro della segreteria particolare di Benito Mussolini, e in quanto tale intermediò con il sicario del deputato socialista Giacomo Matteotti, Amerigo Dumini. Inoltre aderì alla Repubblica di Salò, fu nominato console della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale e collaborò attivamente con i tedeschi tanto da meritare l’Ordine dell’Aquila Tedesca, una speciale onorificenza istituita da Hitler nel 1937 assegnata a soli 9 prefetti su 322.
Ma nel Paese senza memoria una menzione la merita anche il presidente della Provincia di Catanzaro Wanda Ferro, un passato nell’Msi, poi An e infine Pdl. Lo scorso 14 settembre ha concesso all’Associazione Furor la Sala Consiliare della Provincia per la presentazione del libro «L’aquila ed il condor» di Stefano Delle Chiaie, noto neofascista degli anni di piombo. Ma il presidente non si è solo limitata a questo, ignorando che Catanzaro è stata sede del processo per la Strage di Piazza Fontana, ma ha anche preso parte attiva alla presentazione del libro cimentandosi in una ricostruzione particolare della storia, definendo quella della Resistenza, la lotta di liberazione dal nazifascismo, «una chiara manipolazione della verità».
«La presentazione del libro di Delle Chiaie, l’ospitalità e la presenza di Wanda Ferro all’iniziativa è un episodio che conferma le tendenze nostalgiche del presidente della Provincia di Catanzaro» spiega in una nota il segretario generale della Cgil di Catanzaro, Giuseppe Valentino. Tra l’altro il presidente Ferro fino a qualche tempo fa era affiancata nella sua giunta da Natale Giaimo segretario provinciale de «La Destra - Fiamma tricolore», lo stesso che lo scorso agosto ha promosso il raduno presso la statua della Madonna a Monte Covello, eretta nel 1939 per osannare le gesta del regime dopo la costruzione della strada che da Girifalco porta alla montagna, in ricordo dei «martiri» fascisti.
Le schede dell’Osservatorio
Casapound
Redazione - Osservatorio democratico - 18/12/2012
www.osservatoriodemocratico.org
















Casa Pound si costituisce come centro sociale apertamente fascista nel dicembre 2003, in un edificio occupato del demanio al quartiere Esquilino, non distante dalla stazione Termini, in via Napoleone III. L’occupazione viene promossa da alcuni giovani (per lo più reduci dal Movimento politico occidentale, da Meridiano zero e dalla Fiamma tricolore), che facevano riferimento all’esperienza delle Occupazioni non conformi (Onc) e delle Occupazioni a scopo abitativo (Osa) e che già avevano dato vita a Casa Montag (dal nome del protagonista di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, il pompiere che salva i libri dai roghi imposti dal potere catodico), sulla Tiberina nel luglio 2002. Alcune famiglie di senza casa partecipano all’iniziativa.
L’esperimento prende il nome dal poeta americano Ezra Pound, vissuto a lungo in Italia, sostenitore del regime fascista, antisemita, condannato alla fine della guerra per collaborazionismo.
Tra il 2004 e il 2006 seguono altre occupazioni, guidate dallo stesso gruppo, in diversi quartieri romani, tra gli altri ai Parioli e in via Boccea, il più delle volte rapidamente sgomberate. I nomi dati alle occupazioni rivelano spesso l’appartenenza all’ideologia fascista, come Foro 753 (data di fondazione dell’Impero Romano) o Vivamafarka (dal romanzo del futurista Filippo Tommaso Marinetti).
Nel 2006 queste tutte realtà confluiscono nel Movimento sociale-Fiamma tricolore, partito neofascista fondato nel 1995 da Pino Rauti. Nel maggio 2008 si consuma la rottura con il Msi-Ft, a causa dell’espulsione di Gianluca Iannone, il leader riconosciuto di Casa Pound che si trasformerà in Casa Pound Italia (Associazione culturale e di promozione sociale). Lo seguiranno diverse sezioni locali della Fiamma tricolore e l’intera organizzazione giovanile denominata Blocco studentesco.
Casa Pound, si rifà apertamente alla legislazione sociale del fascismo e al Manifesto di Verona (costitutivo della Repubblica sociale italiana). Centrali rispetto alla propria identità risultano due figure del passato, in primis Ezra Pound, da cui sono state recuperate anche alcune teorie economiche, in particolare in favore del controllo statale del sistema bancario e per la «messa fuori legge dell’usura». A seguire il romanziere e scrittore Robert Brasillach (condannato a morte in Francia nel 1945 per la sua attività di collaboratore dei nazisti), la cui effige è stata affissa nel marzo 2009 sui muri di Roma in occasione del lancio del movimento artistico letterario legato a Casa Pound, denominato Turbodinamismo, nei fatti una rimasticatura del futurismo marinettiano. Il simbolo è una tartaruga stilizzata, emblema del diritto alla proprietà della casa, richiamando la lotta principale del movimento.
Il 13 dicembre 2011 un militante di Casa Pound, il cinquantenne Gianluca Casseri, spara e uccide in un raid razzista a Firenze due ambulanti senegalesi. In diverse città le organizzazioni antifasciste chiedono la chiusura delle sedi di Casa Pound. La figlia di Pound, Mary de Rachewiltz, contraria all’utilizzo del nome del padre, ha da tempo intentato all’associazione una causa in tribunale. A suo sostegno si sono schierati alcuni scrittori e intellettuali italiani con una raccolta di firme.

Profilo organizzativo Leadership e organizzazione centrale:
il presidente dell’associazione è Gianluca Iannone (già militante del Movimento politico occidentale, una formazione naziskin dei primi anni Novanta, processato e condannato per diversi atti di violenza contro giovani di sinistra e forze dell’ordine), al contempo guida indiscussa del più seguito gruppo musicale dell’«area non conforme», gli Zetazeroalfa.
Simone Di Stefano e Andrea Antonini sono i due attuali vicepresidenti. Altra figura di spicco è l’avvocato Domenico Di Tullio (autore nel 2010 di Nessun dolore. Il romanzo di Casa Pound).
L’intellettuale di riferimento è Gabriele Adinolfi, storico leader negli anni Settanta, insieme a Roberto Fiore, del gruppo eversivo di Terza posizione. Attraverso il suo Centro Studi Polaris, Adinolfi svolge la funzione di guida delle occupazioni assieme a Iannone.
La sede centrale è a Roma in via Napoleone III n. 8.

Riguardo alla struttura organizzativa riportiamo una email dell’aprile 2009 dello stesso Iannone alle sedi periferiche: «Le comunità vanno strutturate in cerchi concentrici, il primo deve essere il direttivo, il secondo cerchio deve essere quello della comunità e poi i vari cerchi con tutti gli altri. Per comunità intendo un insieme di persone che mantengono un segreto, uno zoccolo duro serrato, fido, agguerrito…Siate sempre diffidenti». «Ogni regione» – è sempre Iannone a parlare – «deve avere un minimo di 10 elementi facenti parte del servizio d’ordine nazionale che faranno capo direttamente al coordinatore regionale e al sottoscritto. Compito dei coordinatori regionali è individuare gli attivisti più portati a discipline marziali e unirli sotto il servizio d’ordine locale». L’impianto sembrerebbe quello delle formazioni neofasciste degli anni Settanta, ipercentralizzate e compartimentate, con doppi livelli, impermeabili e pronte allo scontro non solo politico.

Organizzazione di base sul territorio:
dichiara attualmente 51 sezioni sul territorio nazionale, comprese le occupazioni, tredici sezioni provinciali, trenta tra bar, pub e librerie. Le realtà più importanti sono collocate nel Lazio.
L’organizzazione giovanile è rappresentata dal Blocco studentesco, presente a Roma in diverse scuole medie superiori.
Collegati a Casa Pound sono a Roma la libreria Testa di Ferro, il pub Cutty Sark, un centro di tatuaggi (Tango Core Tattoo), una compagnia teatrale (Teatro non conforme F.T. Marinetti), una web radio (Radiobandieranera), una rivista mensile («Occidentale») e una trimestrale («Fare Quadrato»).
Ha sviluppato una rete di associazioni collaterali in moltissime direzioni. In ambito sportivo oltre a gestire a Roma due scuole sportive, una squadra di pallanuoto e una per la boxe, organizza gruppi di paracadutismo (Istinto rapace), di immersioni subacquee (Diavoli di mare), di motociclismo (Scuderie Sette punto uno), di arti marziali (Il circuito). Nel campo escursionistico è presente con il gruppo La Muvra, in ambito ambientalista con La foresta che avanza e nell’ambito della protezioni civile con La salamandra.
Stima del numero di iscritti: nel 2011 ha dichiarato di aver superato i 4 mila iscritti.

Risultati elettorali
Casa Pound non si è mai presentata in alcuna tornata elettorale. Nel corso di questi anni ha però inserito suoi rappresentanti in altre liste. Prima dell’ingresso nella Fiamma tricolore, nel 2005 furono candidati alla regione Lazio nella lista del governatore uscente Francesco Storace (Alleanza nazionale), Giulio Gargano e Germano Buccolini, detto Gerri, ricordato più per gli insoliti manifesti che lo ritraevano di spalle, recanti la dicitura «meglio una testa di ferro che la solita faccia di bronzo», che per i consensi raccolti, appena 1.500 voti.
Nel 2008 fu la volta dello stesso Iannone, presentatosi, senza successo, alle elezioni politiche dell’aprile 2008 nel cartello elettorale formato da La Destra e dalla Fiamma tricolore (candidato premier Daniela Santanché). Ha annunciato per le amministrative di Roma e del Lazio del 2013 proprie liste.

Le principali campagne politiche
Due le campagne principali condotte in questi anni:
  • a favore del diritto alla proprietà della casa attraverso il «Mutuo sociale», ovvero la «costruzione diretta da parte dello Stato su terreni pubblici di case e quartieri da vendere a prezzo di costo alle famiglie», con «rate mensili non superiori al quinto del reddito»;
  • per «il diritto alla maternità e alla vita», contro «la morte demografica dell’Italia», con la costituzione di un «ente Maternità e Infanzia», «pubblico salario materno fino all’età scolastica», asili nido pubblici «con preferenza nazionale d’accesso».

    Contenuti e profilo politico:
    critica ai partiti e alla partitocrazia
    contrasto all’immigrazione
    opposizione allo sviluppo dell’integrazione europea, alla grande finanza e alle istituzioni finanziarie internazionali (FMI)
    opposizione alla «globalizzazione» e alla «finanziarizzazione» del mondo («antimondialismo» e «antimperialismo»)
    valorizzazione dell’identità nazionale
    antisemitismo

    Casa Pound definisce i propri aderenti come «i fascisti del terzo millennio», schierandosi apertamente contro il regime democratico parlamentare. Propone la totale riscrittura della Costituzione italiana sulla base del proprio programma.
    In questo stesso programma si dichiara fortemente nazionalista nell’ambito di «un’Europa autarchica», a favore di uno «Stato etico, organico, espressione e riferimento spirituale della comunità nazionale», contro la «società multirazziale», interpretando l’attuale fase capitalistica come una «dittatura delle Multinazionali» e del «vampirismo finanziario», all’origine degli stessi flussi migratori, che, secondo Casa Pound, andrebbero bloccati con relativo immediato rimpatrio dei clandestini.
    Oltre a ciò è a favore del «ripristino della leva obbligatoria» e per il «ritorno all’energia termonucleare», per completamento di tutte le grandi opere promesse dai governi di centrodestra, a partire dalla Tav, per il controllo politico della magistratura, istituendo anche Tribunali del popolo per i «processi di evidente taglio politico o sociale», per la cancellazione della legge Scelba (che vieta la ricostituzione del partito fascista) e della legge Mancino (che punisce i reati di istigazione all’odio razziale, etnico e religioso).
    Nella proposta di «messa fuori legge dell’usura» riecheggiano le teorie antisemite di Ezra Pound.

    Agenda sociale
    Dentro la crisi in atto, Casa Pound tenta lo sfondamento nelle nuove generazioni. Anche per questo tutta la sua attività si sta svolgendo all’insegna di un giovanilismo apparentemente trasgressivo e antisistema. In questo contesto vanno collocati i tentativi di contendere alla sinistra alcune figure simbolo, da Jack Kerouac al cantautore Rino Gaetano, da Bobby Sands a Peppino Impastato, fino Che Guevara (riproposto come il combattente pronto all’estremo sacrificio a prescindere dalle idee).

    Il rapportato con le altre forze politiche
    In questi anni Casa Pound si è posta sotto l’ombrello protettivo del Pdl e dell’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno, che nel maggio 2011 ha stanziato circa 12 milioni di euro per acquistare dal ministero del Tesoro lo stabile occupato di via Napoleone III.
    Queste relazioni hanno anche consentito a Casa Pound l’organizzazione di diversi incontri pubblici nella sua sede romana con esponenti dello stessa destra istituzionale e di governo (tra gli altri, gli onorevoli Marcello dell’Utri, Domenico Gramazio e Stefania Craxi, all’epoca sottosegretaria agli esteri). Disponibilità all’interlocuzione sono state manifestate anche da appartenenti al fronte democratico (il giornalista Luca Telese, l'onorevole Paola Concia del Partito democratico, e altri esponenti dello stesso partito, presenti in alcune iniziative promosse in Lombardia).

    Rappresentanza istituzionale
    Nel 2011 ha dichiarato sette consiglieri comunali (tre in Toscana, tre nel Lazio e uno in Abruzzo) eletti come indipendenti in liste di destra (Popolo della libertà, Futuro e libertà o civiche).

    Il rapporto con i sindacati e il mondo del lavoro
    Ultimamente Casa Pound ha costituito un proprio sindacato denominandolo Blocco lavoratori unitario (Blu). In alcuni territori si sono comunque instaurati contatti con l’Ugl (Unione generale del lavoro), l’ex Cisnal, il sindacato fascista legato a suo tempo al Movimento sociale italiano.

    Tra rapine e noti neonazisti
    All’interno dell’organizzazione alcune figure già note per il loro passato neonazista sono ora alla guida di Casa Pound di Viterbo e di Avezzano. Così a Colleverde, dove in ambito Casa Pound, sarebbe dovuta sorgere, nell’ottobre 2011, la sezione italiana della formazione neonazista Blood & Honour. Più volte suoi aderenti sono stati indagati o arrestati per reati comuni, in particolare rapine (a Civitavecchia nel 2006 e a Viterbo nel 2011).
  • Fascisti assassini accoltellano l'ex - Comandante Partigiano "Toscano" a Lucca

    Picchiato a sangue il partigiano Lilio Giannecchini

    Ferito gravemente e trasferito all’ospedale di Pisa: «Nemmeno i nazisti mi hanno fatto questo». L’ombra di un’aggressione politica

    LUCCA. «Quello che non sono riusciti a farmi i tedeschi, me lo hanno fatto gli italiani». Le uniche parole che Lilio Giannecchini, ottantasettenne ex comandante partigiano (nome di battaglia Toscano, a capo della brigata Oreste), per trent’anni presidente dell’istituto della Resistenza, è riuscito a mormorare, con un filo di voce, all’amico Bruno Rossi che lo ha raggiunto in ospedale dopo la barbara aggressione, dopo i colpi ripetuti di bastone sulla testa, di cui è rimasto vittima. Poi è caduto in stato confusionale.
    Sono le venti circa di domenica sera quando Giannecchini rientra alla Casa del clero in via San Nicolao, duecento metri in linea d’aria da via Fillungo, un edificio dove vivono sacerdoti anziani e altri ospiti. Giannecchini è uno di loro. Appena varcato l’ingresso del cortile interno dove si affaccia l’edificio si accorge di una presenza. Sono frazioni di secondo: riesce a intravedere un giovane, non molto alto, che gli dice qualcosa, forse lo insulta, e poi sente solo i colpi. Tanti, ripetuti, vergati a tutta forza sul volto, sulla testa, sul collo e sulla bocca. Una scarica che sembra non finire mai.
    Trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Campo di Marte, Giannecchini viene sottoposto a tutti gli accertamenti del caso. Ha i denti inferiori completamente spezzati, quattro ferite da taglio sulla testa oltre ad altre ferite minore lacero-contuse. Ma soprattutto la Tac evidenzia un ematoma cerebrale nella zona frontale destra, e per questo Giannecchini viene trasportato nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Cisanello.
    Una vicenda sulla quale pesano interrogativi. E cioè se l’aggressione sia stata dettata da unici scopi di rapina o se nasca anche da motivazioni di carattere politico. «Da tempo Lilio vive in un clima ostile – si sfoga l’amico Bruno -, mi ha raccontato di essere stato più volte deriso. E non si è mai ripreso dalla brutta vicenda che lo vide suo malgrado protagonista, quando fu accusato di avere inopportunamente usato il suo ruolo di presidente dell’istituto della Resistenza e per questo sollevato dall’incarico. Anche se poi il giudice lo ha assolto con formula piena». Secondo gli accertamenti dei medici del Campo di Marte, le condizioni di Giannecchini sarebbero gravi anche se non tali, al momento, da pregiudicare la vita.
    “Voglio esprimere tutta la mia vicinanza al partigiano Lilio Giannecchini e augurargli una rapida guarigione”. Sono le parole dell’onorevole Raffaella Mariani, dopo aver appreso della barbara aggressione subita da Giannecchini nella serata di domenica. “Un episodio gravissimo, che mi ha profondamente colpita e che merita la più ferma condanna, sul quale auspico si possa fare chiarezza al più presto, individuando rapidamente i responsabili”.
    Sinistra Ecologia Libertà di Lucca, attraverso la coordinatrice Margherita Cagnoni, “esprime la sua solidarietà al partigiano Lilio Giannecchini per l’aggressione subita, e invia i suoi migliori auguri per una rapida guarigione. SEL auspica che le indagini facciano piena chiarezza sull’eventuale matrice politica dell’aggressione, in ogni caso frutto di una cultura violenta e della tensione sociale”.
    E parole di condanna arrivano anche dal presidente della provincia: “Voglio esprimere – dichiara Stefano Baccelli- la mia solidarietà e vicinanza al partigiano ed ex direttore dell’Istituto storico della Resistenza Lilio Giannecchini e la piu’ ferma condanna della grave aggressione di cui e’ stato vittima. A Lilio Giannecchini auguro la più pronta guarigione, auspicando che venga presto fatta chiarezza sull’accaduto, individuando le cause ed i responsabili di questo vile gesto, un atto barbaro e feroce, ma anche un episodio che scuote le nostre coscienze e il nostro vivere civile.”
    fonte: Repubblica.it

    Forza Nuova contro Casapound

    Estrema destra a Verona, assalti tra ‘rivali’: Forza Nuova contro Casapound

    Al centro l’assalto punitivo al circolo Cutty Sark, in cui due persone sono rimaste ferite. Per gli inquirenti i due gruppi si contendono l’egemonia all’interno della stessa area e il movimento di Roberto Fiore avrebbe compiuto l’agguato.
    di Emanuele Salvato


    Sarebbe una questione tutta interna alla estrema destra i cui esponenti, alla ricerca di voti e consenso soprattutto fra le fasce più giovani della popolazione, stanno dando vita a una “battaglia” senza esclusione di colpi. Questa, secondo quanto riportato dal quotidiano L’Arena, la convinzione dei carabinieri che stanno indagando sull’assalto avvenuto nella notte tra il 17 e 18 febbraio nel circolo Casapound “Cutty Sark” di via Poloni a Verona, durante il quale la sede del locale è stata devastata e due persone sono rimaste ferite. Secondo gli inquirenti gli autori del blitz punitivo a suon di bastonate e pugni sarebbero una quindicina di non ancora identificati soggetti appartenenti al movimento di estrema destra Forza Nuova.
    Indagine per niente facile quella che da dieci mesi stanno portando avanti i militari dell’Arma, che si sono dovuti continuamente scontrare con un muro di gomma. Testimoni che non parlano, vittime dell’assalto che minimizzano, nessuna presa di posizione ufficiale da parte del Movimento di estrema destra Casapound. Addirittura se non fosse stato per i residenti vicino al circolo, che hanno allertato i carabinieri svegliati in piena notte da urla e rumori molesti riconducibili alla devastazione in atto ne locale, è probabile che nessuna delle cinque persone all’interno del circolo a quell’ora avrebbe mai denunciato il fatto. Ma proprio questo alone di mistero, questa reticenza a parlare anche da parte di chi ha preso le botte, fin da subito ha fatto affermare agli inquirenti che in quest’episodio c’era qualcosa di strano. Ma come sono andate le cose quella notte di febbraio? Era mezzanotte e mezza.
    All’interno del locale di via Poloni c’erano soltanto cinque persone, compreso il barista. Qualcuno suona alla porta e proprio quest’ultimo va ad aprire beccandosi immediatamente un pugno in faccia come biglietto da visita. Messo fuori uso il barista il gruppetto di quindici persone, armato di bastoni e spranghe, entra e inizia a spaccare tutto. A farne le spese, oltre agli arredi del locale, anche due ragazzi presenti al momento dell’aggressione: uno è il barista, che prende un diretto sul volto, l’altro un simpatizzante di Casapound che rimedia una ferita sul collo. Ma nessuno dei due si rivolge al pronto soccorso per farsi medicare. Esaurita la spedizione il gruppetto, senza proferire parola, esce dalla sede e si dilegua nella notte. I pochi testimoni che hanno visto qualcosa parlano di persone con abbigliamenti non riconducibili a qualche formazione politica in particolare. Dopo mesi di indagini i carabinieri, che non hanno mai abbassato la guardia sull’episodio ritenendolo gravissimo e riconducibile a una non ben identificata “strategia della tensione” in perfetto stile anni di piombo, sono arrivati a una prima conclusione: ad entrare in quel circolo e a devastarlo, ferendo due persone, è stato un gruppo di 15 persone appartenenti al movimento Forza Nuova. E ci sarebbe anche il movente. Da parecchio tempo, infatti, i rapporti fra il movimento di Roberto Fiore e quello che si ispira allo scrittore e poeta Ezra Pound, sono tesi e quest’assalto sarebbe un episodio chiave nella lotta per l’egemonia della destra estrema, alla ricerca di consensi soprattutto fra i giovani. Sembra infatti che Casapound stia sottraendo voti e consensi a Forza Nuova. E Verona è un buon bacino di consensi per i movimenti di quest’area. Una conferma ulteriore delle divisioni fra i due schieramenti è arrivata lo scorso primo dicembre. In occasione della visita a Verona del premier Mario Monti, Forza Nuova e Casapound hanno dato vita a due cortei di protesta separati e controllati a vista dalla polizia, preoccupata che i due gruppi neofascisti venissero a contatto. Un altro segnale di tensione che potrebbe portare a nuovi episodi violenti.
    Fonte: Ilfattoquotidiano.it

    venerdì 9 novembre 2012

    DIANA SABBI





    Nata a Pianoro il 29 luglio 1922 crebbe in una famiglia di antifascisti.  Nell’ottobre del 1943 entrò in clandestinità come gappista della 62ma Brigata “Camicie rosse Garibaldi” operativa nella valle dell’Idice, sopra Monterenzio.
    Quando il comando partigiano decise di spostare le Brigate da Case Vaglie per Case Mosca fu incaricata di recapitare al Comando Alleato un importante documento della massima riservatezza. Con virile decisione e coraggio, abbatté a colpi di pistola due sentinelle tedesche che cercavano di sbarrarle il passo e proseguì fino al compimento della delicata e rischiosa missione.
    In ottobre, con l'avvicinarsi della linea del fronte, la brigata venne divisa in due gruppi: uno si dirisse a sud per ricongiungersi con le truppe alleate; l'altro andò a nord per raggiungere Bologna per partecipare a quella che si riteneva fosse un'imminente insurrezione popolare. Diana fece parte di quest'ultimo gruppo e si aggregò al distaccamento della 7a GAP Gianni Garibaldi, che aveva la sua sede vicino al macello comunale a Porta Lame.
    Quando i tedeschi circondarono la base, venne mandata, insieme a un'altra partigiana, in perlustrazione con il compito di raccogliere informazioni sullo schieramento nemico; ma nei pressi di Piazza Umberto I furono catturate e rinchiuse in un cortile in Via dei Mille, dal quale alla sera riuscirono a fuggire. Nei giorni successivi, venne impegnata nell'infermeria clandestina di Via Amedeo D'Aosta e in seguito le venne dato l'incarico di mantenere i collegamenti con il Cumer.

    Diana venne riconosciuta partigiana con il ruolo di capitano e le fu conferita la Medaglia d'argento al valor militare.

    Dopo la Liberazione fu la prima donna eletta nell’amministrazione comunale di Pianoro; nel 1951 divenne dirigente sindacale della CGIL e nel 1956 fu eletta consigliera e assessore alla Provincia di Bologna.
    Dal 1990 in poi aveva dedicato ogni sua energia all’ANPI.

    Diana Sabbi è scomparsa il 2 febbraio 2005, proprio mentre si apprestava a donare al Comune di Pianoro la Medaglia ottenuta per il suo impegno nella Resistenza.

    lunedì 29 ottobre 2012

    http://www.youtube.com/watch?v=Si8iuLhTh5M&feature=player_embedded#t=2s


    Guardate il filmato, trattenendo i conati di vomito .Non importa quanti sono, importa che siano fuori dalla legge italiana e che nessuno li fermi, nè forze dell'ordine, nè partiti e organizzazioni democratiche e antifasciste .
    Si chiama apo...
    logia del fascismo : è un reato previsto dalla legge 20 giugno 1952, n. 645 (contenente "Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione"), anche detta Legge Scelba, che all'art. 4 sancisce il reato commesso da chiunque «faccia propaganda per la costituzione di un'associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista», oppure da chiunque «pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche». E' vietato perciò la ricostruzione del PNF e del Partito dei Nazionalsocialisti (ovvero quello Nazista). Ogni tipo di apologia è denunciabile con un arresto dai 18 mesi a 4 anni.

    giovedì 25 ottobre 2012

    Atos Benaglia ha condiviso la foto di Ivano Tajetti.
    Ora basta, faremo ancora di più: chiederemo un incontro al Ministro degli Interni, anche sulla base del documento del 25 luglio scorso redatto con l’Istituto Alcide Cervi, proporremo un incontro con l’ANM per verificare il livello della sen
    sibilità della magistratura sull’applicazione della normativa vigente, a partire dalla legge “Mancino”; e pensiamo di realizzare una iniziativa di forte respiro a livello nazionale, per ottenere un serio impegno antifascista e democratico, da parte di tutti, Istituzioni, autorità pubbliche e cittadini".

    Carlo Smuraglia
    Presidente Nazionale ANPI
    MANIFESTAZIONE NAZIONALE ANTIFASCISTA... senza aspettare il 25 aprile..!

    giovedì 27 settembre 2012

    COMUNICATO STAMPA

    La sezione A.n.p.i. Franco Bonafede di Pianoro (BO)
    esprime sdegno e rabbia per la "tournée neofascista" intrapresa da Forza Nuova in molte grandi città del Paese .
    Sdegno per i rigurgiti violenti e l'ideologia aberrante perseguiti da Forza Nuova, gruppo politico a cui avrebbe dovuto, da tempo, essere imposto lo scioglimento e la messa al bando immediata, per apologia di fascismo e comportamenti razzisti .
    Rabbia per l'assordante silenzio delle Istituzioni con cui vengono accolti episodi come questi e troppi altri, sottovalutati e nascosti alla pubblica conoscenza e opinione .
    L'A.n.p.i. di Pianoro accoglie e fa proprio il grido di allarme dell' A.n.p.i. di Rimini, dei Presidenti regionali e di quello nazionale e aderisce alla mobilitazione antifascista del 29 settembre .
    L'A.n.p.i. di Pianoro si appella altresì alle forze politiche eredi di quello che fu "l'arco politico democratico e Costituzionale" affinché si mobilitino assieme all'A.n.p.i. per difendere i Valori della Costituzione nata dalla Resistenza e garantirne l'applicazione .
    Ora e sempre Resistenza .

    Segreteria A.n.p.i. di Pianoro