domenica 10 febbraio 2013

L’orrore delle foibe e la verità negata.

Per capire la tragedia delle foibe istriane, senza affatto giustificare o rimuovere nessuno di quei crimini, è assolutamente necessario inquadrare bene il periodo in cui si sono svolti i fatti : tra la fine della prima guerra mondiale e lo svolgimento della seconda, nel contesto storico della guerra fascista e nazista alle popolazioni jugoslave .
Un periodo tragico per la popolazione Istriana, inserita nel territorio di frontiera di un'Italia asservita al regime fascista, che non poteva né voleva governare con giustizia quei territori plurietnici e anzi voleva realizzare un preciso programma di oppressione e annessione.
Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920, che assegnò definitivamente l'Istria all' Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo squadrismo fascista importato da Trieste, particolarmente aggressivo e feroce .
Gli stessi storici fascisti, tra i quali l'istriano G.A. Chiurco, vantando le gesta degli squadristi e glorificando le loro opere, ne hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti : dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola e tanti altri, alla distruzione delle Camere del lavoro, all'incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola .
Questi misfatti aumentarono dopo la creazione del regime fascista .
Furono abolite (e distrutte) tutte le società culturali, sociali e sportivi delle popolazioni Slovena e Croata, vennero abolite
le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo : doveva sparire ogni segno esteriore della loro presenza .
Con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia, nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, cacciate dai tribunali e dagli uffici, bandite dalla vita quotidiana .

Migliaia di persone finirono al confino e alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti, cattolici, che lottavano per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze, subirono violenze, attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale fascista .

La sostituzione delle popolazioni “allogene”. 

Un ministro dei Lavori Pubblici dell'era fascista Giuseppe Cobolli Gigli, figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol, classe 1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928, anche perchè sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà.
Fu autore di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali “Il fascismo e gli allogeni” (da «Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle popolazioni «allogene» autoctone con coloni Italiani provenienti da altre provincie del Regno.
Tra altre nefandezze, il Combol-Cobolli scrisse “Il paese sorge sul bordo di una voragine che la musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali dell'Istria .”
Quindi chi, fra i Croati, aveva la pretesa, per esempio, di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella suddetta foiba .

Il Cobolli Gigli, nell’occasione, volle anche tramandare ai posteri una canzoncina in voga fra gli squadristi fascisti  di Pisino … la canzoncina di “Sua Eccellenza” (testo dialettale e traduzione italiana a fronte) diceva:


A Pola xe l'Arena / la Foiba xe a Pisin : / che i buta zo in quel fondo / chi ga certo morbin .
(A Pola c'è l'Arena, / a Pisino c'è la Foiba : / in quell'abisso vien gettato / chi ha certi pruriti) .
E’ triste vedere che il brevetto degli “infoibamenti” spetta agli Italiani, ai fascisti in particolare e risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo . E putroppo essi non rimasero allo stato di progetto e di canzoncine . Riporto dal quotidiano triestino Il Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924:
« Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al lavoro "coatto", in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica d'Albona .
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato trasferito a Verteneglio - ha dell'incredibile . La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l'italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro . Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti. Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica d'Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finchè vivrò (...). Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Sono stati gli italiani, i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea - che da Trieste era diretta a Pisino e Pola - in un burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti. (. . .) Ho lavorato fra Santa Domenica d'Albona, Cherso, Verteneglio sino all'agosto del `43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti). L'accordo e l'amicizia era grande e l'aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la verità, che io posso testimoniare». In fuga dall'Istria .

Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio bellico 1940-43 fu la fuga dall'Istria di circa 60.000 persone.
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano fu ancora una volta il fascismo di Mussolini che nella seconda guerra mondiale portò l'Italia ad aggredire i popoli jugoslavi.
Quell'aggressione tra il 6 aprile 1941 e l'inizio di settembre 1943 fu caratterizzata dalle brutali annessioni di larghe fette di Croazia e Slovenia e da una lunga serie di crimini di guerra.
Per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali, si giunse alle scelte più spietate dei comandi militari italiani: ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza perpetrata a danno delle popolazioni ».

Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile`41 si ripetè quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo per la snazionalizzazione e l'assimilazione, provocando inevitabilmente l'ostilità e l’odio delle popolazioni.
Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non cruento dell'occupazione, fu recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il Prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della Kupa, Temistocle Testa : con suo decreto dell'8 settembre 1941 fu ordinato di «adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni straniere ».

Così località del profondo territorio interno lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar cambiarono : Belica divenne Riobianco, Bogovic divenne Bogovi .
Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò a distruggere col fuoco quelli che non tolleravano l'italianizzazione né l'occupazione.
In data 30 maggio 1942 il Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l'internamento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità.
Ma non si limitò alle deportazioni : con un manifesto si rendeva noto: «Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia».
Il 4 giugno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume  incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Rattecevo in Monte (Ratecevo). A Monte Chilovi (Kilovce), furono fucilate 24 persone.
Non c'è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati “Territori Aggregati e/o Annessi” a contatto con l'Istria e la regione del Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente raso al suolo, non una sola famiglia che non abbia avuto uno o più membri deportati o fucilati .  Centomila nei campi di concentramento italiani. 

Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco : «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell'aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l'incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento».
In particolare evidenzia che il numero dei condannati e confinati «slavi» della Venezia Giulia e dell'Istria fu particolarmente elevato : dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era costituita da civili Sloveni e Croati.
Il numero totale dei civili internati dall'Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le «leggi eccezionali».
Più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission dell'Organizzazione delle Nazioni Unite .
I campi di concentramento nei quali furono rinchiusi più di centomila civili Croati, Sloveni, Montenegrini ed Erzegovesi erano disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto .
Non si contano, poi, i campi «di transito e internamento» che funzionavano lungo tutta la costa Dalmata, sulle isole di Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat) : quest’ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi» .
In quei lager italiani morirono 11.606 Sloveni e Croati . Nel solo lager di Arbe ne morirono  2.600 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie.

Il 15 dicembre 1942 l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame».
Sotto quel rapporto, il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: « Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento . Individuo malato = individuo che sta tranquillo» .
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di «briganti comunisti passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose:
«Chiarire bene il trattamento dei sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!».
Il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge:
«Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da testa per dente».
Furono circa 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.

Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell'Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale .


Civili uccisi o deportati, villaggi rasi al suolo .
Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento .

Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi, San Matteo e Spincici : i loro beni, compreso il bestiame, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero fucilate .
Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnico, a nord di Fiume : per ordine del prefetto Temistocle Testa, reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum all'alba del 13 luglio.

L'intera popolazione fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi incendiato . Più di cento maschi furono fucilati nella cava : il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena . Finirono nei campi di internamento italiani donne e bambini di 185 famiglie .
Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò:
«Ieri sera tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti militari dell'armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop». Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette villaggi : furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono deportate ( 842 uomini, 904 donne e 565 bambini ) , furono incendiate 503 case e 237 stalle .
Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, reparti di fascisti e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, rubarono il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e incendiarono abitazioni, stalle e altri "covi di ribelli ". Nei campi di concentramento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici.
Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un "Fronte nazionale antifascista" al Prefetto Giuseppe Cocuzza : era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista e nel documento, si fa una denuncia circostanziata di violenze, arresti, devastazioni e criminali esecuzioni «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza di certe autorità ».

Nell'iniziativa era evidente, oltretutto, un «diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi indiscriminatamente sugli Italiani dell'Istria come reazione «alla tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave».

Quando arrivò inesorabile la stagione delle vendette, nel nuovo Governo Democratico pochi in fondo se ne meravigliarono : la nuova tragedia era stata a lungo preparata, coltivata e annunciata .
E il nuovo ordine mondiale impose loro di fare scendere una inesorabile e cinica coltre di oblio : la spietata logica dei nuovi equilibri europei vedeva sacrificata, oltre all’esistenza degli Italiani d’Istria e Dalmazia, anche la Verità e la Storia .

Le stesse che ancora oggi in troppi vogliono nascondere o riscrivere, secondo la propria convenienza.


( fonti : Giacomo Scotti, giornalista e scrittore di Fiume/Rijeka - "Il Manifesto" 04/02/2005)

mercoledì 23 gennaio 2013

Vengono definiti “eccidi di San Giovanni in Monte” per tenerli assieme : si tratta dei circa 200 Partigiani reclusi nel carcere omonimo, trucidati a Sabbiuno, San Ruffillo e Rastignano .
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Le fucilazioni in massa di detenuti politici a Bologna negli ultimi mesi di occupazione tedesca

Andrea Ferrari, Paolo Nannetti

Le fucilazioni in massa di detenuti politici a Bologna negli ultimi mesi di occupazione tedesca

per gentile concessione degli autori.

Dalle esecuzioni pubbliche agli eccidi occultati

Scopo di questo breve intervento è quello di fornire qualche anticipazione su di una inchiesta, tuttora in corso, avente come oggetto gli eccidi di detenuti politici e partigiani avvenuti ad opera delle forze nazifasciste a Bologna a partire dal dicembre 1944, e più in generale, della politica punitiva attuata nei confronti dei detenuti nel territorio bolognese durante l’occupazione tedesca. L’indagine attuale trae origine da una ricerca sull’eccidio di San Ruffillo che nel 1983 ci fu affidata dal Quartiere Savena di Bologna, insieme alla locale ANPI, e che fu poi riassunta in una piccola pubblicazione (“L’eccidio di San Ruffillo. Repressione nazifascista a Bologna nell’inverno 1944-45” a cura del Comitato per le onoranze ai caduti di San Ruffillo, Bologna 1987 (1).

Di quell’avvenimento, così come del resto dell’eccidio di Sabbiuno di Paderno, considerato l’eccidio-simbolo fra quelli bolognesi di partigiani, esisteva all’epoca una memoria storica lacunosa, ancora inesatta circa il numero effettivo delle vittime e le date di esecuzione. Attraverso un lungo lavoro di archivio, a partire dagli schedari dell’ANPI e dal confronto tra questi e l’archivio anagrafico, ricostruimmo la quasi totalità delle biografie delle vittime e le circostanze del loro arresto, giungendo ad ipotizzare un nome per le 23 salme che all’epoca del ritrovamento delle fosse, nei primi giorni del maggio ‘45, non erano state riconosciute.
Successivamente, grazie alla collaborazione con Alberto Preti, che stava lavorando ad una ricostruzione dell’eccidio dì Sabbiuno di Paderno (2) ci fu offerta la preziosa opportunità di accedere all’archivio dell’ex-carcere bolognese di San Giovanni in Monte, per consultare i registri di entrata-uscita dei detenuti nel periodo bellico. In tale occasione abbiamo trascritto i dati quasi integrali riguardanti il movimento del settore maschile tra la fine del gennaio 1945 e la Liberazione.
Sì è potuto così verificare la posizione di circa 450 detenuti entrati e usciti dall’1 febbraio al 21 aprile 1945 e di altri 150 entrati da ottobre-novembre 1944 e usciti dal febbraio 1945 in avanti. Inoltre, al fine di quantificare statisticamente i movimenti dei detenuti abbiamo trascritto gli estremi dei numeri di matricola dei mesi che vanno dal settembre 1943 alla Liberazione, raccogliendo così una importante documentazione circa l’effettivo utilizzo del carcere bolognese.
meseda matricolaa matricolaregistratimeseda matricolaa matricolaregistrati
settembre 437.9258.033108luglio 4411.15611.487311
ottobre 438.0348.230196agosto 4411.48811.769281
novembre 438.2318.646415settembre 4411.77011.980210
dicembre 438.6478.926279ottobre 4411.98112.185204
gennaio 448.9279.355428novembre 4412.18612.367181
febbraio 449.3569.650294dicembre 4412.36812.824456
marzo 449.65110.198547gennaio 4512.82513.146321
aprile 4410.19910.635436febbraio 4513.14713.368221
maggio 4410.63610.910274marzo 4513.36913.671302
giugno 4410.91111.155244aprile 4513.67213.849177
La fonte si rivelata estremamente precisa quando é stata incrociata con gli accertamenti, presso le anagrafi dei vari comuni di residenza dei detenuti, e confrontata con le pubblicazioni di memorie, testimonianze, storie locali dei vari comuni delle province di Bologna, Modena e Ferrara.
Un’ altra importante verifica é venuta dal confronto con il Dizionario biografico degli antifascisti (3) non solamente per quanto concerne le biografie delle vittime degli eccidi, ma anche per tutti quegli appartenenti alla Resistenza che dal carcere sono transitati con altre destinazioni e altri destini.
La meticolosa precisione burocratica di questi documenti, le firme degli inconsapevoli condannati a morte che di li a pochi minuti sarebbero stati trucidati, e non trasferiti come fatto credere dai loro aguzzini, rappresentano una drammatica testimonianza e una importantissima fonte attraverso la quale ricostruire le tragiche vicende umane di quei giorni e ci forniscono una medita prospettiva dalla quale osservare lo scenario complessivo della repressione degli antifascisti nel territorio bolognese.
Nel corso della nostra ricerca su quel tragico capitolo della occupazione tedesca abbiamo individuato due fasi distinte.
La prima, che potremmo definire delle esecuzioni pubbliche, comprende tutto il ciclo di fucilazioni ed eccidi che fino alla metà del dicembre 1944 vengono compiuti materialmente ad opera di militi della GNR o delle brigate nere, coinvolgendo partigiani o appartenenti a vario titolo alla Resistenza locale, quasi tutti provenienti dal carcere cittadino di San Giovanni in Monte o da altri luoghi di detenzione presso caserme delle varie polizie e milizie fasciste.
Luogo di esecuzione privilegiato è il Poligono di tiro cittadino dove in almeno una dozzina di date vengono uccisi circa novanta prigionieri, solo in parte dopo formali processi e condanne. In una data di inizio aprile, ma soprattutto fra il giugno e l’agosto ‘44, un’altra quarantina di vittime vengono fucilate con modalità sommarie in alcune piazze centrali della città, come piazza Nettuno – che diventa in questo periodo il “posto di ristoro dei partigiani” -, e davanti ai muri del cimitero della Certosa (4).
Caratteristica distintiva di questa serie di fucilazioni è la prevalente logica di rappresaglia nella quale può essere inscritta, sia in risposta ad attentati a esponenti fascisti, come nel caso dell’esecuzione di 8 detenuti politici fucilati il 27 gennaio 1944 (a seguito della uccisione del segretario federale Facchini), sia in conseguenza ad attentati contro militari tedeschi, su decisione del comando delle forze occupanti.
Non mancano i casi di fucilazioni di detenuti condannati come renitenti e di esponenti dell’opposizione politica antifascista.
Significativo è il fatto che nella maggior parte dei casi viene data informazione dell’avvenuta esecuzione, attraverso manifesti murali e/o soprattutto comunicati, specie a cura della Prefettura, sulle pagine del quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino”, nei quali vengono riportati in modo dettagliato le generalità dei condannati (5).
L’ultima di queste esecuzioni avviene, fra le poche a non essere pubblicizzata, il 13 dicembre 1944 presso il Poligono di tiro, con il coinvolgimento di quattordici partigiani catturati alcuni giorni prima in seguito alla scoperta di una infermeria clandestina nella quale erano in cura, fra gli altri, parte dei feriti delle battaglie di Porta Lame e della Bolognina.
Proprio il giorno successivo, 14 dicembre, avviene invece la prima di un’altra lunga serie di fucilazioni, con caratteristiche alquanto diverse da quelle del ciclo su menzionato, e che inaugura una fase del tutto nuova, che potremmo definire degli eccidi occultati.
Si tratta della prima esecuzione sul ciglio del calanco di Sabbiuno di Paderno, nella collina bolognese, a cui farà seguito una seconda il 23 dicembre, per un totale di almeno 58 vittime, partigiani e antifascisti prelevati dal carcere di San Giovanni in Monte.
I prelevamenti dal carcere vengono effettuati da militari tedeschi SS, come risulta con chiarezza dai registri, dalle celle del braccio riservato ai prigionieri di loro competenza, con modalità tali da lasciar credere ad un probabile trasferimento verso la Germania, cosa che in effetti avviene per un contingente di diverse decine di detenuti in data 22 dicembre 1944, con destinazione finale Mauthausen.
Le esecuzioni a Sabbiuno di Paderno avvengono segretamente e i corpi delle vittime vengono fatti cadere dalla dorsale della collina nei calanchi sottostanti, e in seguito trascinati verso il basso dalle piogge, per rimanere poi semi-nascosti dalla naturale erosione del terreno fino all’agosto 1945, quando vengono rinvenuti.
Alcuni mesi prima, nel maggio 1945, c’era stato un altro importante ritrovamento, il primo nel suo genere dopo la Liberazione, nei pressi della piccola stazione di San Ruffillo, semidistrutta dai bombardamenti alleati, alla periferia sud di Bologna.
Nelle fosse comuni, ricavate dalle buche prodotte dai bombardamenti aerei intorno alla linea ferroviaria, vengono rinvenuti 96 corpi, per buona parte riconosciuti nei partigiani prelevati in varie date del febbraio e marzo 1945 dalle celle del carcere di San Giovanni in Monte a Bologna.
Anche nel caso delle esecuzioni a San Ruffillo, il registro del carcere testimonia che tutti i detenuti prelevati sono affidati ad appartenenti del comando tedesco SS, con modalità tali da far pensare, ad una deportazione verso il Reich.
E anche in questo caso un reale trasferimento avviene il 28 febbraio di circa 110 detenuti, che dopo una tappa a Verona, arriveranno al lager di Bolzano e lì si fermeranno, sopravvivendo in gran parte.
Il primo prelevamento di prigionieri destinati ad essere fucilati a San Ruffillo avviene il 10 febbraio 1945, sicuramente quello che coinvolge il maggior numero di prigionieri.
Secondo il registro del carcere sono 55 i detenuti che vengono affidati al “Comando tedesco SS”.
Il 10 febbraio è data di prelevamento, ma anche data di ingresso di altri gruppi che verranno fucilati successivamente. Infatti il 20 febbraio i registri del carcere riferiscono di un avvenuto “Rilascio in seguito a ordine comando SS” per sette prigionieri, di cui quattro risultano fucilati a San Ruffillo, mentre gli altri sono liberati.
Altri 5 partigiani registrati il 10 febbraio verrano condotti alla esecuzione in data 1 marzo insieme con altri 5 entrati in varie date e sempre prelevati da soldati del comando tedesco SS.
Passano appena ventiquattro ore, e il 2 marzo, i registri riferiscono di 11 rilasci “in seguito a ordine comando SS”.
Erano entrati in carcere tutti tra il 26 e il 27 febbraio.
La condanna in questo caso viene eseguita quasi immediatamente e la motivazione del rilascio non lascia presagire l’imminente tragedia.
Poi per quasi due settimane il movimento del carcere si riduce al minimo, appena una decina le uscite a vario titolo, sempre però ad opera di militari tedeschi.
Il 16 marzo invece l’attività torna frenetica, sia per i numerosi prelievi che per il positivo esito di una audace evasione di alcuni detenuti (6).
La sorte è invece segnata per un gruppo di 9 partigiani che figurano affidati a generici “agenti tedeschi”, e i cui corpi verranno riconosciuti fra le salme dissepolte a San Ruffillo.
Ultima data in cui abbiamo notizia di un prelevamento di detenuti che sono poi stati fucilati nei pressi della stazione alla periferia di Bologna, è quella del 21 marzo 1945, giorno nel quale il registro riferisce della consegna a “Sottufficiale tedesco SS” di tre prigionieri rinvenuti nelle fosse.
Abbiamo con chiarezza accertato che, in altre date del mese di aprile 1945, altri 39 detenuti furono prelevati dal carcere ad opera di militari SS, e di essi si perde ogni traccia, risultando a tutt’oggi ufficialmente dispersi.
Già nel corso delle nostre prime indagini sull’eccidio di San Ruffillo, ci aveva particolarmente colpito che dei tanti nomi di partigiani dispersi dopo essere stati prelevati nell’aprile 1945 nessuno era mai stato ufficialmente riconosciuto fra le salme ritrovate nelle fosse della stazione, nonostante per taluni si fosse immaginato il coinvolgimento in quell’ eccidio.
Da questa constatazione erano derivati approfondimenti che ci avevano portato ad ipotizzare che alle ultime esecuzioni compiute in marzo a San Ruffillo ne fossero seguite altre, con caratteristiche simili, ma in luogo, o luoghi, diversi, rimasti ancora sconosciuti.
L’accesso alla fonte del registro del carcere tende a confermare questa ipotesi, consentendoci di chiarire il calendario di questi ultimi prelevamenti e l’identità delle vittime.
Il primo di questi eccidi avviene il giorno 4 aprile, data in cui i registri segnalano la consegna ad “Agenti Comando Tedesco SS” di 17 persone, più altre 2 consegnate a “Comando Tedesco SS”, ad oggi tutti dispersi.
Il gruppo più consistente proviene dal comune di Bondeno, in provincia di Ferrara, dove un rastrellamento delle brigate nere porta all’arresto, nella frazione di Burana, di un gruppo di attivi sappisti locali, a metà del febbraio 1945.
Tradotti inizialmente nel carcere dì Finale Emilia, dal 16 marzo risultano entrati a San Giovanni in Monte.
Sempre il 4 aprile, vengono prelevati 3 partigiani attivi a Malalbergo, arrestati all’inizio di marzo.
Nella stessa data escono dal carcere anche altri attivi membri della Resistenza cittadina bolognese e della provincia come Remo Nicoli, che dal dicembre 1944 aveva assunto il comando della brigata garibaldi “Irma Bandiera”, fino all’arresto, nella sua base di via Bertiera, avvenuto il 13 marzo.
Sul registro figurano anche le firme di uscita di due partigiani provenienti dalla montagna modenese, arrestati il 13 marzo 1945 in un rastrellamento a Montalto, e di un gappista di Crespellano, arrestato il 28 febbraio. Risulta inoltre affidato ai militari tedeschi anche un certo Righi Gigino, di Forlì, probabile falsa identità dichiarata da Rossi Ivano arrestato il 15 marzo. Infatti Righi Gigino risulta sconosciuto nell’anagrafe di Forlì e Gigino era il nome partigiano di Rossi che tra l’altro, per effetto del suo lavoro, aveva vissuto proprio nella cittadina romagnola.
Da rilevare come tutti i 19 prelevati del 4 di aprile risultano entrati in carcere dal 14 marzo in avanti.
Secondo i registri di San Giovanni in Monte le altre due date certe di prelevamenti in aprile sono il 9 e il 17, otto i partigiani prelevati nella prima data e dispersi, dodici nella seconda.
La lettura di questa ultima serie di dati risulta tuttavia complicata dal fatto che, parallelamente all’avvio dei condannati all’eliminazione in luogo sconosciuto, da parte tedesca inizia una differente gestione della popolazione dei detenuti.
Se fino alla fine di febbraio l’alternativa era ancora fra segreta fucilazione e deportazione, dal mese di marzo, quando per l’evolversi della situazione militare questa opzione ormai non è più praticabile, si era cominciato ad inviare gruppi di lavoro forzato nelle zone ove si svolgevano opere di fortificazione.
Un gruppo di prigionieri avviati a compiti di posa delle mine dopo essere stati affidati ad “agenti tedeschi” è sicuramente rintracciabile già nelle registrazioni del 22 marzo (7).
Ma è soprattutto la giornata del 9 aprile ad essere particolarmente indicativa di questa nuova esigenza nella gestione dei prigionieri, in quanto gruppi di detenuti diversi, prelevati a poche ore di distanza, sono destinati il primo all’utilizzo per lavori verso la linea del fronte, il secondo invece condotto alla eliminazione (8).
Il primo gruppo, di quasi una ventina di detenuti, risulta affidato ad “agenti tedeschi”, l’altro al “comando tedesco SS” e include 8 partigiani provenienti da Sala Bolognese e da altre località della provincia.
Dopo i prelevamenti del 9 aprile i movimenti del carcere diventano per alcuni giorni quasi inesistenti, poi il giorno 17 inizia l’ultima grande operazione del comando tedesco SS che entro il 19 porterà praticamente al suo completo svuotamento.
Di tale decisione troviamo eco in un un rapporto inviato a “Dario”, comandante del CUMER, circa una riunione svoltasi presso il comando SS pochi giorni prima della Liberazione, durante la quale fra le varie misure da adottare in vista dell’arrivo degli alleati in prossimità della città, il capitano delle SS Hugo Gold avrebbe affermato che “tutte le carceri devono essere pulite; è stato deciso di inviare i detenuti di San Giovanni in Monte a vari campi di lavoro. Solo per i detenuti politici di una certa importanza si è provveduto altrimenti”.(9)
Nel giorno 17 aprile i registri del carcere riferiscono del prelievo di 142 detenuti, in parte affidati ad “agenti tedeschi”, in parte a “comando tedesco SS”; fra questi il gruppo dei 12 dispersi.
Altri 95 detenuti verranno prelevati ad opera del “comando tedesco SS” il giorno 19 e, da quanto risulta, sono tutti sopravvissuti.
Ricorda Gabriele Boschetti, detenuto nell’infermeria del carcere, che nel pomeriggio del 17 aprile “arrivarono le SS che vuotarono le celle della loro sezione e divisero i prigionieri in due gruppi, uno dei quali composto da quattordici partigiani (…) tutti gli altri furono trasferiti temporaneamente, mi si disse, alla caserma dell’artiglieria in Viale Panzacchi, dalla quale avrebbero dovuto essere portati oltre il Po”(lO).
Il tentativo di trasferire verso nord almeno una parte dei prigionieri usciti il 17 aprile sembra confermato da alcune altre testimonianze, secondo le quali tuttavia l’impresa fallisce grazie ad un provvidenziale bombardamento aereo sulla colonna in marcia che offre agli ex-detenuti l’opportunità di fuggire”.(11)
Nel gruppo degli ultimi 12 condannati a morte, ad appena 4 giorni dalla Liberazione, è innanzitutto da segnalare la probabile presenza di Adelfo Maccaferri (Brunello) vice comandante della 63.a brigata “Bolero” Garibaldi, forse il partigiano bolognese più ricercato, ma che al momento della cattura, avvenuta nel Marzo 1945 a Castelcampeggi di Calderara di Reno non viene evidentemente identificato e si dichiara alla matricola del carcere con il nome di persona nata e residente a Forlì, ma in realtà sconosciuta all’anagrafe di quella città.
Con lui era stato arrestato Ottavio Serra, registrato con le sue vere generalità subito dopo il numero di matricola del detenuto proveniente da Forlì.
In totale quindi risultano a tutt’oggi dispersi, dopo essere stati prelevati nelle tre date di aprile, 39 detenuti.
Dispersi dove?
Quale può essere stato l’ultimo teatro di segreta fucilazione, dopo Sabbiuno di Paderno e San Ruffillo, nel quale sono rimaste nascoste le spoglie degli ultimi contingenti di prigionieri ritenuti “degni di morte”?
L’interrogativo ci ha accompagnato per molti anni, senza risposta, fino a quando, a margine di una commemorazione dell’eccidio di San Ruffillo, un ex-partigiano ci ha segnalato alcuni vecchi articoli di stampa locale.

Rastignano di Pianoro, maggio 1974

“Ieri durante i lavori di scavo per fare le fondamenta di un nuovo ed a Rastignano di Pianoro, in via Don Minzoni, le ruspe hanno portato alla luce i resti di 17 persone sepolte in quel luogo, con ogni probabilità durante l’ultima guerra. Stando ai primi accertamenti, sembra che si tratti di persone passate per le armi. Sugli scheletri infatti, sarebbero stati trovati i segni lasciati da pallottole di mitra. Nei pressi del luogo del triste rinvenimento, c’era un comando delle truppe tedesche. Il fronte, come è noto, nell’inverno del 1944 si trovava a pochi chilometri di distanza”.
Così riferiva il quotidiano L’Unità del 14 maggio 1974, commentando la casuale scoperta compiuta dagli operai di una impresa edile nel corso dei lavori di scavo per le fondamenta di una palazzina nella località Il Pero, a Rastignano, la prima frazione del comune di Pianoro che si incontra lasciando il quartiere San Ruffillo di Bologna, poco dopo il ponte sul torrente Savena.
L’area interessata era in un piccolo lotto di terreno sulla Via Don Minzoni, una corta strada che corre parallela fra la statale della Futa, da un lato e la massicciata della ferrovia Bologna-Firenze dall’altro, in quel tratto molto rialzata.
Avvisate le autorità competenti i lavori di scavo vennero temporaneamente sospesi per consentire le prime indagini e l’esumazione degli scheletri rinvenuti, eseguita la quale, ripresero alla ricerca di eventuali altre fosse adiacenti. Ed infatti, a pochi metri ne apparve una seconda, più piccola.
“Proseguendo negli scavi di via Don Minzoni, alla periferia dì Rastignano, in comune di Pianoro, gli operai della impresa che deve preparare le fondamenta di un nuovo ed hanno recuperato, presenti i carabinieri di Pianoro, altri sei scheletri. Da un primo esame anche questi sembra siano stati uccisi e buttati in una fossa comune dalle truppe tedesche che a poca distanza dal luogo del ritrovamento avevano un loro comando. Sono state reperite ossa perforate e fratturate da proiettili, presumibilmente di mitragliatrice. Anche in questo secondo rinvenimento gli scheletri apparterebbero a civili. Sono stati trovati vari bottoni, un orologio da polso, nessuna piastrina di riconoscimento o altri oggetti utili alla identificazione delle vittime della ferocia nazista”. (12)
In totale vennero quindi rinvenuti ventitré scheletri, ad alcuni metri di profondità nel terreno, che raccolti in 9 scatole furono inviati all’Istituto di Medicina Legale di Bologna.
Esauritasi ormai la cronaca dei ritrovamenti, nei giorni successivi Il Resto del Carlino e L’Unità continuarono, nelle loro pagine locali, ad occuparsi della vicenda nel tentativo di fornire qualche ipotesi plausibile circa il contesto dell’eccidio. Alcuni elementi interessanti scaturirono da interviste che i giornalisti riuscirono ad avere con gli ex-proprietari del fondo e con altri residenti della zona.
“Le fosse comuni scoperte per caso a Rastignano non sono altro che voragini prodotte dalle numerosissime bombe sganciate nel 1944 nei pressi della linea ferrata. Alcune buche vennero richiuse mentre gli abitanti del luogo erano sfollati a Bologna. Dopo la liberazione, gli abitanti della zona tornarono alle loro case, ma nessuno fece caso alle voragini richiuse. Non le aveva notate neanche Umberto Colombari, il contadino padrone del podere “Fornacina” sul quale erano cadute quelle bombe. La scoperta degli altri scheletri fa pensare che nella zona sia avvenuto un vero e proprio eccidio: tutto fa ritenere infatti che gli altri lavori di scavo faranno rinvenire altre decine di resti. Chi sono gli uomini e le donne trucidati ? Quasi sicuramente civili, visto che le scarpe le fibbie e tutto ciò che é stato trovato fra gli scheletri sono resti di abiti civili e non di divise militari (…) Don Giorgio Serra parroco anche nel 1944 della parrocchia di Rastignano, ha escluso che si tratti di gente della zona “i nostri morti – ha detto – sono stati tutti ritrovati e seppelliti assieme agli altri caduti”. Le ventitré persone trucidate saranno probabilmente state portate a Rastignano da altre località e lì giustiziate con colpi d’arma da fuoco sparati a bruciapelo alla testa, come dimostrano eloquentemente i fori nella calotte craniche fin qui rinvenute.”(13)
Sulla possibile identità delle vittime invece gli orientamenti dei due quotidiani si andarono differenziando, evocando scenari alquanto diversi.
Da un lato Il Resto del Carlino metteva in grande risalto una serie di articoli con i quali si tendeva ad accreditare la strage come l’esecuzione di alcuni civili dispersi abitanti nella zona e di un gruppo di piloti alleati tenuti prigionieri in un comando tedesco SS che durante l’estate-inizio autunno 1944 era insediato proprio in una villa che sorgeva vicino al luogo di rinvenimento della strage.
Con minor enfasi, ma forse con maggior realismo, l’Unità suggeriva invece un ponte tra i ritrovamenti delle nuove fosse e i partigiani ancora dispersi dopo il prelevamento dal carcere di San Giovanni in Monte nell’ultimo periodo bellico proponendo, sia pur nei limiti delle poche informazioni disponibili, un parallelo con l’eccidio di San Ruffillo.
E in verità gli elementi comuni fra i due tragici avvenimenti apparivano significativi.
“Intanto la macabra “tecnica” dei massacri aperti sui crateri delle bombe d’aereo usata dagli assassini della “brigata nera” e della SS; alla stazione di San Ruffillo infatti, decine e decine di partigiani ed ostaggi furono buttati nella fossa comune nel Febbraio e seppelliti senza che alcun testimone civile avesse potuto essere presente o vedere: solo con il bombardamento a tappeto dell’Aprile, che segnò l’inizio dell’offensiva finale, la terra venne nuovamente sconvolta, mettendo a nudo l’orribile carneficina.
Dall’elenco dei prelevati dal carcere, sempre in quei giorni, mancano da trent’anni altre decine di partigiani, un folto gruppo dei quali portati via a bordo di camion. Le buche di Rastignano sono distanti pochi chilometri da San Ruffillo e tale elemento ha suggerito ai compagni la possibile eventualità che le varie fosse siano legate dall’unico terribile filo dell’atrocità nazifascista”. (14)
L’ipotesi che i resti umani rinvenuti nel 1974 a Rastignano siano quelli di detenuti prelevati da San Giovanni in Monte scaturì dunque già in quei giorni fra gli ex compagni di lotta e di carcere, alcuni dei quali si recarono ad esaminare i resti e gli oggetti rinvenuti, nella speranza di poter fornire qualche informazione utile. Ma invano: nessuna identificazione ufficiale fu possibile, l’inchiesta venne archiviata e l’eccidio venne di fatto dimenticato.
Seguendo tuttavia il filo di quella suggestione va rilevato come alla luce dell’esame dei registri del carcere la possibilità che si tratti almeno in parte di contingenti di detenuti prelevati nel corso dell’aprile 1945 appaia del tutto verosimile.
E’ vero, non c’é complessivamente una perfetta coincidenza fra il numero degli scheletri ritrovati a Rastignano e il numero dei partigiani rimasti dispersi nelle tre date, ma questa differenza potrebbe derivare dal mancato ritrovamento di parte delle vittime dell’eccidio.
Il lotto di terreno nel quale fu effettuato lo scavo delle due fosse fu probabilmente l’ultimo ad essere costruito.
Potrebbero esserci altre fosse rimaste ignote nelle proprietà confinanti, già edificate, che quindi non fu possibile cercare. Oppure in una delle date di prelevamento potrebbe essere stato scelto dagli esecutori tedeschi un diverso luogo di strage, ad una distanza più o meno grande da quello in oggetto.
Non esistono oggettivamente elementi sufficienti, sulla scorta delle informazioni attualmente disponibili, né per confermare né per smentire l’attendibilità di quella ipotesi. Noi ci limitiamo a segnalarla come degna di estremo interesse auspicandone se possibile un ulteriore approfondimento.
L’analisi dei registri del carcere di San Giovanni in Monte ci ha dunque consentito, attraverso l’integrazione con altre fonti, una ricostruzione pressochè completa dell’elenco delle vittime dei vari eccidi di detenuti compiuti in diverse località bolognesi a partire dal dicembre 1944.
Complessivamente almeno undici esecuzioni che nel corso degli ultimi cinque mesi di occupazione tedesca hanno coinvolto circa duecento prigionieri; undici episodi legati da una tragica continuità e da una sostanziale omogeneità nei modi di attuazione, che inducono a considerare il complesso di quegli avvenimenti in modo unitario, riferendoci ad essi come agli “eccidi di San Giovanni in Monte”, poiché se diverse sono state le mete di quei fatali ultimi trasferimenti, certamente unico ne è stato il luogo di partenza.
Sui criteri di scelta dei diversi teatri di strage si possono immaginare una serie di ragioni, attinenti in primo luogo alla possibilità di un rapido occultamento delle vittime, alla sicurezza e alla segretezza dell’esecuzione.
La decisione di trasferire dalla collina alla periferia cittadina la sede delle fucilazioni potrebbe rispondere all’esigenza di operare in una zona più facilmente accessibile nell’avanzata stagione invernale, in presenza di abbondanti nevicate.
Quella di spostare in altro luogo ancora le esecuzioni dei prelevati in aprile potrebbe giustificarsi con l’eventuale saturazione dei crateri disponibili, oppure con l’avvenuto bombardamento degli stessi.
La scelta di Rastignano, se trovasse conferma l’ipotesi del suo utilizzo per almeno parte delle ultime fucilazioni, appare così perfettamente coerente: zona isolata, caratterizzata dalla presenza di numerosi crateri fra la strada e i resti della massiciata ferroviaria, e di alcuni edifici o ruderi, da utilizzare eventualmente in appoggio alle esecuzioni. (15)
Continuità dunque nelle caratteristiche organizzative degli eccidi, e nei criteri di scelta dei luoghi in cui attuarli ed occultarli. Prima ancora, continuità nei criteri della attenta selezione che veniva effettuata all’interno dei nuovi contingenti di arrestati e rastrellati in arrivo al carcere del capoluogo dalle varie caserme di polizie della RSI e dagli altri carceri minori della provincia e oltre, con la quale si tendeva a distinguere fra i membri attivi del movimento resistenziale e quelli che rimanevano classificati come semplici simpatizzanti, destinati in genere alla deportazione. Di fatto il profilo di coloro che dall’inverno vengono destinati alla segreta esecuzione non differisce molto da quello che nei mesi dell’estate-autunno 1944 caratterizzava i detenuti i cui nomi entravano nelle liste di “decimazione” da utilizzare nelle rappresaglie.
Cambiano semmai le proporzioni. Dalla fine della primavera del 1944 all’autunno inoltrato funziona infatti la cosiddetta “operazione-carceri” che in tutta l’Italia occupata provvede a svuotare periodicamente le prigioni dai detenuti politici, deportati verso i lager del Reich per essere utilizzati come manodopera per l’industria chimica e degli armamenti. (16)
Ne rimangono esclusi quei partigiani ed esponenti più in vista dell’opposizione politica che vengono condannati a morte dai tribunali speciali o utilizzati direttamente come ostaggi per le rappresaglie.
Quali sono invece dall’inverno 1944 le percentuali dei condannati a morte e dei deportati rispetto al totale dei detenuti bolognesi? I dati in nostro possesso sulla popolazione carceraria maschile in entrata a San Giovanni in Monte fra i primi giorni del dicembre 1944 e la Liberazione sono incompleti circa i movimenti di gennaio; tuttavia una stima realistica per quel periodo può indicare in non meno di 1450 i detenuti in entrata, a fronte dei quali risultano documentati i circa 200 nominativi delle vittime delle varie esecuzioni e i circa 150-200 deportati fra il 22 dicembre 1944 e il 28 febbraio 1945 (17).
Questi dati tendono però a far sottostimare la severità della selezione avviata dalle SS sui nuovi gruppi di politici in ingresso da dicembre. Se infatti consideriamo il campione di detenuti entrati dopo arresti e rastrellamenti fra il 10 gennaio 1945 e il 10 marzo successivo, data dell’ultimo ingresso di detenuti poi uccisi a San Ruffillo, verifichiamo come la percentuale di “candidati alla morte” sia maggiore: su 230 circa ingressi, 80 vengono deportati il 28 febbraio, 80 avviati alle fosse, i restanti 70 liberati, di cui però più di 40 solo dopo il 19 aprile.
E’ significativo inoltre il fatto che le due ultime deportazioni da Bologna di detenuti politici siano avvenute proprio il giorno prima di una esecuzione, a riprova della stretta relazione fra le due pratiche repressive, per le quali, all’interno del medesimo contingente esaminato, venivano destinati prigionieri di diversa “qualità”.
La vicinanza delle date di deportazione e di quelle di esecuzione tende inoltre ad escludere che la situazione di sovraffollamento del carcere – peraltro documentabile per il mese di dicembre, ma non per quelli successivi, fino ad almeno la fine di marzo – possa essere stata di incentivo agli eccidi.
La lettura dei registri consente anche di verificare come i movimenti di detenuti in uscita, al di là delle date di esecuzioni, di deportazioni e, più tardi, di invio ai lavori forzati, siano veramente minimi e quasi esclusivamente affidati a militari tedeschi: tra il 10 febbraio e il 19 aprile i prigionieri rimessi in libertà o affidati ad agenti di polizia o della GNR sono quasi una trentina.

Aussenkommando Bologna

Ma chi materialmente effettuava la selezione dei detenuti? Chi decideva le condanne a morte? Era nella sede del comando SS di Bologna che, secondo Cipriano Tinti, responsabile del servizio informazioni del CUMER fino al suo arresto, nel dicembre ‘44, e in seguito a sua volta detenuto a San Giovanni in Monte fino quasi alla Liberazione, “un tribunale composto da tre ufficiali decideva della sorte dei catturati”. (18) Tinti non ci dice di più, ma la sua indicazione, per quanto generica, appare verosimile.
Chi potrebbero essere i tre ufficiali indicati da Tinti? Il comando SS bolognese non è mai stato oggetto di studi specifici, e manca per il momento una ricostruzione precisa del suo organigramma. Secondo Klinkhammer, nell’aprile 1945 il distaccamento disponeva ancora di 70 impiegati, tra i quali 38 militari SS: 6 ufficiali, 23 sottufficiali e 9 soldati. (19)
E’ ben noto invece che fu in una palazzina al n.6/2 di Via S. Chiara – una tranquilla strada residenziale situata al margine del grande parco cittadino dei Giardini Margherita, fra l’altro a poca distanza da San Giovanni in Monte – che, fino alla notte precedente l’arrivo degli alleati, rimase insediato il comando distaccato del Comandante della Polizia di Sicurezza e del Servizio di Sicurezza (SD), Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des Sicherheitdienst, cioè l’Aussenkommando Bologna.
Alla sua direzione, da una data imprecisata dell’estate 1944, viene nominato l’SS Hauptsturmfuhrer (capitano) Hugo Gold, nato a Mammendorf, il 7.10.1894. Con questo nuovo incarico a Gold veniva data l’opportunità di mettere a frutto l’esperienza acquisita prima presso l’Aussenkommando di Genova, dove fino al febbraio ‘44 era stato vice di Engel come responsabile della sezione IV e V (Gestapo, Kripo), e in seguito presso il distaccamento di Firenze, dove avendo ricoperto le stesse mansioni, si era ritrovato a lavorare a fianco della “banda Carità”(20).
Con l’arretramento del fronte e la liberazione del capoluogo toscano, molti membri dell’Aussenkommando di Firenze vengono ridislocati in parte a Parma, in parte a Bologna. Fra questi l’SS-Obersturmfuhrer (tenente) Karl Weissmann, austriaco, uno degli ufficiali che, secondo gli elementi emersi fino ad ora, ha sicuramente rivestito funzioni di responsabilità nella direzione della IV sezione, della Gestapo, alla quale era demandata, secondo il preciso schema di organizzazione del lavoro comune a tutti i distaccamenti Sipo-SD, la funzione di repressione anti partigiana. (21)
Secondo alcune fonti, molti componenti dell’organico SS bolognese, come già a Firenze, erano di origine alto-atesina. Fra questi probabilmente anche il sergente Hermann Prader. Nonostante il suo nome non ricorra in alcuna delle tantissime testimonianze rilasciate dopo la guerra da ex-resistenti transitati nelle stanze di interrogatorio del comando SS o del carcere cittadino, la sua figura viene dipinta come simbolo di ferocia nelle pagine del Giornale dell’Emilia dell’agosto 1946, quando ne viene annunciato l’avvenuto riconoscimento, da parte del capitano Galli dell’ufficio politico della questura bolognese, fra gli internati del campo di prigionia di Rimini.
“Il Prader, spietato e feroce come pochi, era inviso ai suoi stessi commilitoni; egli dopo aver soppresso le sue vittime, le spogliava degli oggetti di valore che poi rivendeva in città”; per queste sue doti “era chiamato dai tedeschi “leichenflederer”, cioè: iena.” (22)
Ma ciò che rende particolarmente interessante la sua biografia, è il fatto che, sempre secondo il giornalista del quotidiano bolognese, “era lui che provvedeva a prelevare dalle carceri di San Giovanni in Monte gli appartenenti alle forze della resistenza; era lui che ordinava, spesso eseguendole, le fucilazioni. Era diventato a suo tempo, il terrore di Bologna.” (23)
Negli stessi articoli in cui si sottolineava il presunto ruolo di Prader nella gestione delle esecuzioni di detenuti, si informava anche della attiva ricerca di un altro ufficiale SS ritenuto coinvolto in molte violenze contro prigionieri partigiani, il tenente Wemer Haftmann.
Quelli di Gold, Weissmann e Haftmann sono dunque fra i nomi più probabili dei componenti l’organismo di selezione che all’interno dell’Aussenkommando di Bologna decideva della sorte dei nuovi detenuti in entrata sotto la giurisdizione tedesca SS. Prader forse ne era solo un fedele ed entusiasta esecutore. Ma quelle specifiche responsabilità rimangono interamente da verificare. Ugualmente, rimangono da approfondire anche le precise competenze e articolazioni territoriali dell’Aussenkommando Bologna, e le loro progressive modifiche nel tempo. Sappiamo infatti che dal distaccamento bolognese dipendevano anche gli Aussenpost, sezioni locali, di Modena e Ferrara. E proprio a Ferrara è da segnalare un episodio, che fino ad ora è stato considerato nel suo contesto locale, ma che invece alla luce di quanto è emerso in merito agli eccidi di San Giovanni in Monte, si configura come una possibile anticipazione, su scala minore, di quei tragici avvenimenti.
All’alba del 17 novembre 1944 nel carcere di via Piangipane, situato nel centro del capoluogo estense, vengono prelevati da militari SS un gruppo di 7 prigionieri politici, già appartenenti alla dirigenza della Resistenza ferrarese, lì imprigionati dopo gli arresti avvenuti fra il settembre e l’ottobre precedenti. Sul registro dei detenuti, accanto a ciascuno dei loro nomi, compare la dicitura “inviato in Germania per il lavoro”. Dal gruppo dei sette manca il nome di Carlo Zaghi, depennato all’ultimo momento per intervento del prefetto Altini, come risultato delle coraggiose azioni intraprese dalla moglie del prigioniero. Ed è Carlo Zaghi, sopravvissuto dopo essere stato trasferito nel carcere di Padova, che molti anni dopo in un’opera autobiografica ricostruirà gli eventi di quel giorno. (24)
Dopo il prelevamento i sette detenuti vengono fatti salire su un torpedone messo a disposizione dalla Questura, che lasciato il centro del capoluogo imbocca la statale Ferrara-Venezia, per fermarsi però solo a pochi chilometri, nei pressi del Caffè del Doro, chiuso e disabitato. L’area era stata preventivamente circondata da un reparto di SS italiane, per chiuderne gli accessi. Ad una cinquantina di metri dalla strada, in mezzo a un campo, si trova un vasto cratere. I detenuti vi vengono condotti ed uno alla volta uccisi con un colpo di pistola alla nuca, la cui eco viene attutita dal motore mandato su di giri. Dopo, appena un velo di terra, che sarà tuttavia sufficiente a nascondere i corpi fino all’estate del 1945, quando proprio l’autista del torpedone, un italiano impiegato dalle SS in quella mansione, dopo la sua cattura vi accompagnerà le autorità. Nell’agosto del 1945 si terrà il processo, nel corso del quale oltre alle responsabilità dei funzionari di polizia fascisti nella gestione della fase precedente il prelievo, si appurerà che a premere il grilletto della pistola di esecuzione vi era quel giorno un certo Gustavo Pustowska, maresciallo SS, appositamente giunto dal comando SS di Bologna, dove “operava”.
Annota il Zaghi come “fino allora le esecuzioni di detenuti politici arrestati in Ferrara e provincia dagli organi della polizia repubblichina erano prerogativa esclusiva di dette autorità, che prelevavano, arrestavano, fucilavano in piena autonomia, senza chiedere il permesso a nessuno. (…) Con l’eccidio di Caffè del Doro si cambia tattica. I detenuti vengono affidati dalla Questura al braccio secolare della Germania nazista: cioè le SS, abituate da sempre ad andare per le spicce e a considerare eccessivi gli scrupoli giuridici formali e burocratici delle pubbliche autorità fasciste”. (25)
Si conferma dunque, al di là di ogni dubbio, il ruolo di primo piano avuto dall’Aussenkommando Bologna nella pratica dei prelievi di prigionieri dal carcere da destinare poi a segreta fucilazione e non solo nell’ area bolognese, ma in tutto il territorio di sua competenza. Tale ruolo, sebbene già noto ai tempi dei ritrovamenti delle fosse di San Ruffillo, non sembra essere stato oggetto di specifiche inchieste giudiziarie o di polizia di una qualche rilevanza. Siegfried Friederich Engel, in qualità di comandante dell’Aussenkommando di Genova, per gli efferati eccidi che da quella sede furono organizzati (26), e Theodor Saevecke, come comandante dell’SD a Milano, per la fucilazione di 15 detenuti antifascisti il 10 agosto 1944 a Piazzale Loreto (27), sono stati processati e condannati appena pochi anni or sono. Né Hugo Gold, che nell’Aussenkommando di Bologna rivestiva le stesse responsabilità direttive svolte da Engel e Saevecke, né alcuno dei suoi sottoposti, sono stati processati, né ormai lo saranno.
Riteniamo tuttavia importante che questi temi possano essere oggetto di ulteriori approfondimenti non tanto per arrivare a stabilire le eventuali singole responsabilità giuridiche quanto per chiarire meglio il contesto nel quale quelle esecuzioni si resero possibili, la logica nella quale comprenderle, gli ordini e la catena di comando attraverso cui vennero decise ed attuate. Siamo fino ad ora riusciti a meglio illuminare quegli eventi, le loro vittime, forse gli autori, ma ancora molto lavoro rimane da fare intorno alle possibili cause.

Dalla rappresaglia allo sterminio

Un primo contributo in tale direzione parte da una constatazione: gli eccidi di San Giovanni in Monte rappresentano, nel panorama della gestione dei detenuti politici nella RSI durante il periodo posteriore all’autunno 1944, un caso probabilmente eccezionale, sia in termini quantitativi che, soprattutto, per la sistematicità con cui vennero praticati. Casi di eccidi di detenuti che non siano giustificabili all’interno di una logica di rappresaglia o come esecuzione di condanne da parte di tribunali speciali, sono riscontrabili in tante altre località del nord occupato nel medesimo periodo, ma in genere rimangono eventi abbastanza isolati, ad eccezione forse solo dei massacri perpetrati nella Zona d’operazione Litorale Adriatico, fra Trieste e l’Istria, in una situazione dunque non direttamente confrontabile.
Ciò che sembra verificarsi nel territorio bolognese si configura come un passaggio da una fase caratterizzata dal binomio deportazione-rappresaglia ad una fase invece nella quale assistiamo ad una radicalizzazione di una logica di silenzioso sterminio, dove, fin quando possibile, la deportazione continua ad integrarsi.
Ma se nell’ultimo inverno di guerra, a fronte della preziosa occasione offerta dall’arresto della spinta militare alleata sull’Appennino, i caratteri di un generale inasprimento della politica repressiva tedesca nei confronti delle formazioni partigiane tendono ovunque a connotarsi con metodi sempre più brutali, nello specifico caso di Bologna, quel processo di radicalizzazione delle procedure di sistematica ma nascosta eliminazione si accompagna invece ad una sostanziale cessazione delle rappresaglie e delle altre forme di esecuzione.
L’approfondimento delle possibili cause di tale nuovo indirizzo nelle politiche punitive adottate nei confronti degli appartenenti alle bande catturati, non può a nostro avviso non tenere conto anche della particolare situazione politica che dal novembre 1944 si verifica a Bologna in conseguenza del nuovo comando militare tedesco di operazioni assunto dal generale Von Senger.

L’anomalia Von Senger

Il generale Frido Von Senger und Etterlin giunge a Bologna verso la fine dell’ottobre 1944 al comando del XIV corpo corazzato, dislocato a difesa del settore a sud del capoluogo. Ufficiale della Wehrmacht per molti aspetti anomalo, di tradizioni aristocratiche e cattoliche, di sentimenti anti-hitleriani, con amici nella cerchia degli alti ufficiali che attenteranno alla vita del Fuhrer, Von Senger è però un brillante stratega, protagonista della strenue difesa di Cassino, e questo gli sarà sufficiente, insieme alle indubbie doti diplomatiche, a mantenere il suo ruolo di comando fino alla fine, nonostante i vari tentativi di Hitler di farlo destituire. Critico verso i “metodi spicci” del suo predecessore, Von Senger ritiene “quello di pacificare e governare Bologna (…) un problema politico di primo ordine”. “Così delicato – annota nelle sue memorie – che mi autonominai comandante della città di fatto, se non di nome, stabilendo entro il suo perimetro un mio ufficio (28), al quale assegna un ufficiale di fiducia.
Ma il suo stile moderato, dovrà ben presto misurarsi con una situazione d’ordine pubblico sempre più incandescente: dopo le battaglie di porta Lame e della Bolognina, dopo il proclama Alexander, è in pieno svolgimento la controffensiva antipartigiana, caratterizzata da un crescendo terroristico ad opera dei reparti armati di polizia fascista, e in special modo delle brigate nere, animate dalla guida estremista di Franz Pagliani.
Alla fine di novembre l’uccisione di quattro noti professionisti antifascisti – i cui corpi vengono fatti trovare in strada, mentre un quinto scompare – provoca lo sdegno generale e innesca una serie di interventi da parte dell’ala più moderata dell’amministrazione civile e politica bolognese che daranno infine a Von Senger l’occasione per un intervento decisivo. Il giorno 21 dicembre 1944 si trovano infatti convocati in prefettura il Capo della Provincia, il Questore, un rappresentante del comando della GNR e il federale Torri, ai quali viene chiesto conto degli ultimi gravi episodi di violenza, fra cui anche l’esecuzione sommaria di 9 disertori della GNR. Insoddisfatto delle risposte evasive ricevute e approfittando delle affioranti divisioni all’interno della dirigenza di Salò, Von Senger, dopo aver chiesto di individuare e punire i responsabili delle violenze, decreta l’immediato assoggettamento operativo di tutti i reparti armati di polizia fascista al comando tedesco, ed ottiene, come avverrà formalmente dal gennaio, l’allontanamento della brigata nera mobile “Pappalardo”, del suo comandante Franz Pagliani, del federale Torri, e del questore Fabiani.
Il successo della manovra politica di Von Senger sul versante fascista è indubbio, e i suoi effetti misurabili: a partire dalla fine di dicembre le pratiche di esecuzioni sommarie ad opera di reparti fascisti vanno praticamente esaurendosi. Uniche eccezioni, le uccisioni di alcuni partigiani per lo più in scontri a fuoco nel corso di operazioni di arresto, e il ritrovamento, verso la fine di marzo, nella centrale via Falegnami, dei corpi seviziati di due partigiani tratti in arresto da brigatisti neri pochi giorni prima. Anche le esecuzioni al Poligono di tiro, dopo quella del 13 dicembre, si fermeranno, fino al 18 aprile quando, dopo un processo a cui si decide sia conveniente dare grande risalto politico, sei componenti il comando della brigata socialista “Matteotti” cittadina, arrestati insieme a molti altri verso la fine del mese precedente, vengono condotti di fronte al plotone di esecuzione.
Ma parallelamente alla partita sul versante fascista ne viene giocata un’altra, non meno delicata e gravida di conseguenze, sul versante tedesco, come ci viene riferito dallo stesso Von Senger, il quale ricorda che “a Bologna l’abituale antipatia tra le forze armate e le SS era particolarmente acuta.” Più in particolare, “il servizio di sicurezza era, come ovunque, la massima autorità di polizia. Ma Bologna era zona d’operazioni, per cui, in base alle leggi in vigore, tutto doveva dipendere dai comandi militari. Un’affermazione dell’autorità militare in questo senso era impossibile, data la situazione. Il capo del servizio di sicurezza distaccato a Bologna rivestiva il grado di capitano ma non dipendeva in alcun modo da me, anzi si considerava investito di una autorità pari alla mia.” Il tentativo di Von Senger sembra essere stato dunque quello di far valere le sue prerogative in materia di repressione alle bande previste dagli accordi fra Kesserling e Wolff nell’estate 1944, in base alle quali la direzione della repressione anti partigiana nelle fasce costiere e nelle zone d’operazioni dell’immediato retro fronte spettava ai comandi d’armata della Wehrmacht e non ai distaccamenti SiPo-SD, come invece era previsto per il restante territorio occupato. (29)
Non conosciamo nel dettaglio i contenuti della trattativa che a un certo punto deve essersi avviata fra Hugo Gold e Von Senger, e che presumibilmente ha investito anche i livelli più alti dei rispettivi comandi; i toni che traspaiono dal racconto del generale sembrano tuttavia alludere ad un confronto molto aspro: “dell’ostilità delle brigate nere non mi importava gran che (…) più pericoloso era invece il peggioramento dei miei rapporti con il servizio di sicurezza tedesco, conseguenza diretta del provvedimento preso nei confronti del federale e del professore”, poiché l’esito di quell’intervento aveva significato “una disfatta dello stesso servizio di sicurezza”. Un confronto reso ancor più difficile dal fatto che l’azione di Von Senger, secondo la sua testimonianza, avrebbe voluto incidere in modo significativo nella gestione della politica di ordine pubblico dell’area del suo comando, secondo i seguenti principi: “per quanto riguardava i criminali italiani, lì affidavo di preferenza alle autorità italiane perché li giudicassero e condannassero; (…) quando si trattava di attentati diretti contro le truppe di occupazione tedesche, disposi che i colpevoli venissero giudicati da regolari tribunali.” Ma certamente una delle frizioni più gravi proviene dal tentativo del generale “di togliere al servizio di sicurezza qualsiasi ingerenza nelle misure di sicurezza riguardanti le truppe dislocate nello spazio di Bologna e di limitare la sua attività alla sorveglianza e alla scorta dei prigionieri civili che dovevano lasciare la zona”.
E chi erano quei “prigionieri civili” in procinto di “lasciare la zona” se non proprio quei detenuti politici e partigiani destinati alla deportazione verso il Reich, la cui partenza dal carcere risultava documentata, essendo stato ciascuno “affidato a comando tedesco SS”, ma il cui effettivo arrivo rimaneva al di là di ogni possibile controllo? Ecco dunque delinearsi la zona d’ombra, lo spazio che la pur volenterosa opera di pacificazione non poteva, e non doveva, in alcun modo illuminare, e che rimaneva invece territorio di esclusivo arbitrio dell’Aussenkommando Bologna. Fu in quella zona d’ombra che nel corso degli ultimi cinque mesi dì occupazione tedesca scomparvero circa 200 uomini della resistenza bolognese ed emiliana.

Note

l) A questo lavoro rimandiamo in particolare per le biografie dei caduti delle fosse di San Ruffillo, il loro ruolo nella Resistenza e le vicende che ne hanno determinato la condanna a morte, materiale che, per quanto in futuro speriamo di riprendere con ancora maggior approfondimento e completezza, non rappresenta il contenuto di questo scritto
2) Alberto PRETI, Sabbiuno di Paderno: dicembre 1944, University press, Bologna 1994. – 80 pp.
3) A.ALBERTAZZI, L.ARBIZZANI, N.SAURO ONOFRI, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), Istituto per la storia di Bologna, VI volumi Bologna 1985-2003
4) La elencazione più completa di tutte le esecuzioni avvenute nel bolognese è contenuta in LUCIANO BERGONZINI, La svastica a Bologna, settembre 1943-aprile 1945, Bologna, Il Mulino, 1998
5) Durante tutto il 1944 la cronaca locale del “ Resto del Carlino” é densa di questi annunci in molti dei quali “la Prefettura comunica la fucilazione di…” In particolare nell’estate queste notizie si moltiplicano: 6,11,14,15,16,22 luglio e poi 20,24,30,31 agosto e 20,22,26 settembre
6) Nei primi mesi del 1945 vi sono due importanti episodi di evasione dal carcere di San Giovanni in Monte (16 marzo e 5 aprile ) e i registri, con precisione, indicano a margine della registrazione dei detenuto la dicitura “evaso” e la data dell’evasione. In particolare sull’episodio del 16 marzo si legga la testimonianza di Ildebrando Brighetti su (a cura di) LUCIANO BERGONZINI, La Resistenza a Bologna Istituto per la storia di Bologna, voi. V ,Bologna 1980 pag. 560
7) Testimonianza di Ettore Bagni, su LUCIANO BERGONZINI op.cit vol II pag.146. Bagni risulta prelevato il 22 marzo ‘45 dal carcere con altri 12 detenuti, fra cui il giornalista Franco Pecci, con il quale riuscì a fuggire.
8) Sul prelievo del 9 aprile ‘45 di detenuti trasferiti a lavorare verso il fronte vedi la testimonianza di Alfredo Galluzzi, in SARA PRATI, Quando eravamo ribelli…,Modena, ANPI, 1978, pag. 215
9) Questo rapporto viene citato da LUIGI ARBIZZANI, Antifascismo e lotta di liberazione nel Bolognese: comune per comune , ANPI-Bologna, 1998.
10) Testimonianza di Gabriele Boschetti, su LUCIANO BERGONZINI op.cit. Vol. V pag.85 I
11) Sui prelevamenti del 17 aprile 1945 di detenuti trasferiti a lavorare verso il fronte vedi le testimonianze di Mario Pasotti, in Momenti partigiani imolesi in collina e città, Imola, A.Marabini, 1984,pag.112, e quella di Matteo Ribattezzato, in SARA PRATI, La resistenza a Castel San Pietro, Imola, 1975, pag. l17
12) l’Unità, 15 Maggio 1974
13) Il Resto del Carlino, 15 Maggio 1974
14) l’Unità, 18 Maggio 1974
15) Forse non è casuale che accanto a tutti e tre i teatri di strage fosse presente un edificio o suoi resti, nel quale poter sorvegliare i prigionieri in attesa del rispettivo turno di esecuzione.
16) Sull’operazione carceri e in generale sulla deportazione dei detenuti politici vedi GIUSEPPE MAYDA, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945 : militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich , Torino, Bollati Boringhieri, 2002
17) Sulla deportazione del 22 dicembre 1945 siamo riusciti a documentare solo una parte dei nominativi dei detenuti coinvolti. Secondo uno di essi, sopravvissuto, quel giorno partirono da Bologna 6 camion di prigionieri. Vedi la testimonianza di Augusto Manganelli, su LUCIANO BERGONZINI op. Cit. Vol.V pag. 788
18) Testimonianza di Cipriano Tinti su LUCIANO BERGONZINI op.cit. Vol. I pag. 78
19) LUTZ KLINKHAMMER, L’amministrazione tedesca di Bologna e il crollo della linea gotica, in Bologna in guerra 1940-1945 (a cura di) BRUNELLA DALLA CASA e ALBERTO PRETI, FrancoAngeli Milano 1995 pag.135
20) Su Hugo Gold a Genova vedi PIER PAOLO RIVELLO, Quale giustizia per le vittime dei crimini nazisti? L ‘eccidio della Benedicta e la strage del Turchino tra Storia e Diritto, G:Giappichelli Editore, Torino, 2002, pag. 187. Sulla sua permanenza a Firenze vedi (a cura di) CARLO GENTILE, Personale del comando della Sicherheitspolizei/SD di Firenze e della “Banda Carità”, su http://www.eccidìl943-44.toscana.it.
21) Su Weissmann a Firenze vedi CARLO GENTILE, op.cit. Su Weissmann a Bologna ricordiamo le testimonianze di Armando Businco su LUCIANO BERGONZINI op.cit. Voi III pag. 622 e, anche se non citato direttamente, Teodoro Posteli su op.cit. Vol. I pag. 282
22) Giornale dell’Emilia, 15 Agosto 1946
23) idem
24) CARLO ZAGHI, Terrore a Ferrara durante i 18 mesi della repubblica di Salò, Istituto Regionale “Ferruccio Parri” per la storia del Movimento di Liberazione e dell’età Contemporanea in Emilia Romagna, Bologna 1992 pp. 482. Questi i caduti dell’eccidio del Caffé del Doro (17 Novembre 1944): Mario Agni, Giuseppe Franceschini, Gigi Medini, Alberto Savonuzzi, Michele Pistani, Antenore Soffritti, Arnoldo Azzi
25) CARLO ZAGHI, op.cit. pp. 287-290
26) Sulla biografia di Engel e sul suo processo vedi PIER PAOLO RIVELLO, op.cit. pp.187-21l
27) Su Saevecke vedi LUIGI BORGOMANERI, Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo, Datnews Editrice, Roma, 1997
28) VON SENGER UND ETTERLIN, La guerra in Europa, traduzione di Giorgio Cuzzelli, Longanesi, Milano, 2002. La permanenza di Von Senger a Bologna é ricordata alle pp. 392-414
29) Sul sistema di occupazione tedesco e i rapporti fra le sue componenti vedi innanzitutto LUTZ KLINKHAMMER, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino, 1993. Sul tema delle politiche tedesche nella repressione antipartigiana vedi l’importante recente contributo di MICHELE BATTINI, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Editori Laterza 2003

venerdì 4 gennaio 2013

Ricordarsi di ricordare Giancarlo Romagnoli .
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Il 3 gennaio 1944, a 19 anni, l’eroico Partigiano Giancarlo Romagnoli diventa il primo partigiano bolognese fucilato dall’occupante tedesco .

Nato il 13/5/1924 a Pianoro.
Giancarlo Romagnoli fu fucilato il 3 gennaio 1944, accusato di aver preso parte ad azioni partigiane e detenzione di materiale esplosivo. A lui è dedicata una targa collocata in via Broccaindosso a Bologna dove abitava con la sua famiglia che si trasferì in montagna a Vidiciatico per ripararsi dai bombardamenti alleati su Bologna.

Durante la Resistenza, Giancarlo Romagnoli era venuto a Bologna insieme ad un suo amico per compiere un'incursione nella caserma della attuale Via Bersaglieri e rubare le armi che furono fatte pervenire alla brigata partigiana "Stella Rossa" in montagna.
Successivamente i tedeschi compirono un'azione di pattugliamento a Vidiciatico arrestando il giorno 8 dicembre 1943 Giancarlo Romagnoli, Adriano Brunelli e Formilli Lino.

Dopo l'arresto furono portati all'Abetone per essere interrogati con l'obiettivo di avere informazioni per arrestare altri compagni che erano sfuggiti.
In seguito furono trasferiti nel carcere di S. Giovanni in Monte e dopo un rapido e sbrigativo processo furono condannati alla fucilazione al Tiro a Segno di Bologna.

La notizia di queste prime condanne a morte e dell'avvenuta fucilazione fu data dai tedeschi con un manifesto bilingue ("Bekanntmachung - Avviso", del comandante militare della provincia di Bologna e Modena), annunciante cinque esecuzioni capitali (due delle quali relative a partigiani romagnoli, Marx Emiliani e Amerigo Donattini), affisso sui muri nella stessa giornata.

Riconosciuto Partigiano nella brg Stella Rossa Lupo, dall'1/1/43 al 3/1/44.

(Omaggio postato da : Italia Libera Civile E Laica = Italia Antifascista.)

lunedì 31 dicembre 2012

Vinka Kitarovic – Nome di battaglia Lina (nel Bolognese) e Vera (nel Modenese)

Vinka Kitarovic
Ieri, 26 dicembre, è venuta a mancare, all’età di 86 anni, Vinka Kitarovic di origini croate, partigiana, che per il suo ruolo nella Resistenza ottenne il riconoscimento militare di capitano.
Segue una brevissima biografia del suo trascorso partigiano. Ho conosciuto Vinka in occasione di un incontro con gli studenti della scuola media. Era una persona che si era dedicata alla memoria sempre disponibile per parlare della sua esperienza con i giovani perché il sacrificio di tanti compagni e compagne in quegli anni non vada disperso. Proprio da lei queste parole assumevano un significato più profondo, perché scelse di combattere il nazifascismo in Italia, paese dove era stata deportata e non rientrare per combattere nella sua nazione nativa la Jugoslavia. Lei da straniera ha contribuito alla Liberazione, alla rinascita del nostro paese. Il tempo è inclemente e purtroppo un ennesimo testimone ci ha lasciato.
Biografia
Nasce il 5 aprile 1926 a Sebenico (Jugoslavia). Frequentò il 6° anno di ginnasio secondo l’ordinamento scolastico in atto in Jugoslavia.
Studentessa, aderì all’Unione della gioventù comunista (SKOJ) alla fine del 1942. Stante l’occupazione italiana della regione, venne arrestata per attività di opposizione dalla polizia fascista, a Sebenico, nell’autunno 1942.
Dopo quindici giorni di carcere, assieme ad altre due connazionali arrestate per motivi politici anch’esse, venne tradotta in Italia, a Bologna, e rinchiusa in una casa di rieducazione per minorenni, minorate e prostituite.
Attraverso una guardiana dell’istituto animata, da sentimenti antifascisti, si collegò con i comunisti Linceo Graziosi e Giorgio Scarabelli. Con questi concertò la fuga dall’istituto che realizzò, assieme ad una delle due compagne jugoslave, agli inizi dell’ottobre 1943, approfittando del trambusto accaduto durante un bombardamento aereo.
Tramite la trafila clandestina venne allogata in casa colonica a Zola Predosa. Di qui salì in montagna, sopra Monte San Pietro, per collaborare ad un tentativo di insediamento partigiano nella zona; tentativo fallito per via di una delazione. Rientrò a Zola Predosa e poi si nascose presso la residenza dei fratelli Gianni, Giacomino e Vincenzo Masi. Dal febbraio al giugno 1944 svolse attività, in qualità di staffetta, nella 1a brg GAP Gianni Garibaldi. Ricercata dalla polizia fascista sfuggì all’arresto trasferendosi nel modenese. Venne inserita nel comando della 65a brg Walter Tabacchi della 2a div Modena Pianura e lavorò a stretto contatto col comandante Italo Scalambra. Agli inizi del 1945 venne designata componente dell’ufficio di collegamento del CUMER a Modena. Congedata con il grado di capitano.
La sua testimonianza pubblicata nel 1980
Essendo stata un’internata politica — sono di nazionalità iugoslava — nell’autunno del 1943, dopo il 25 settembre, ebbi occasione di incontrarmi con Giorgio Scarabelli e Linceo Graziosi, tramite una conoscente di quest’ultimo che fungeva da sorvegliante nel luogo della mia detenzione.
Quale fatto, dunque, e quale momento politico mi sembrasse più significativo — riferendoci alla situazione politica, italiana — mi riesce difficile dire, appunto perché la realtà italiana di allora io la conobbi dietro le « sbarre ». Personalmente aderii alla Resistenza italiana, in quanto nella stessa ritrovavo sia il pensiero, sia il fine che erano alla radice del movimento di Resistenza del mio Paese. Gli italiani insorgevano contro il nazifascismo, che opprimeva il mio popolo, e mi sembrò quindi la cosa più logica e più naturale unirmi ad essi nella lotta contro il nemico comune.
Appunto perché ero una straniera, e per di più giovanissima, sinceramente credo che, se volessi analizzare i miei Sentimenti di allora e forse anche di oggi — il fatto di maggior interesse politico per me fu, e rimane tutt’ora, l’unità e la crescente partecipazione delle genti italiane al movimento di liberazione. Il fattore politico per me si affianca al risveglio della dignità umana del popolo e al riscatto dei valori che differenziano l’uomo da altri esseri viventi e quindi il movimento di liberazione e la Resistenza al nazifascismo sono parti non solo materiali, ma innanzitutto ideologiche ed etiche. Che lo stesso poi scaturisca in una serie di momenti più significativi o più decisamente circoscritti, rimane per me una conseguenza logica del pensiero che creò il movimento partigiano non solo italiano, ma anche internazionale.
Non so se ho risposto alle domande ma, onestamente, se voglio esser la partigiana della verità, così come allora cercai di essere degna della fiducia dei miei compagni di lotta, non posso rispondere in modo differente. Forse è dovuto anche al fatto che io facevo parte della schiera delle « staffette partigiane » operanti in pianura e in città, dove il fattore più importante era il contatto sociale.
Queste ritengo siano state le cause che mi hanno portato a militare nelle file della Resistenza italiana e sono le stesse che spiegano a me il perché trovai tanto naturale unirmi ai compagni italiani e a lottare assieme a loro.
Essere una staffetta partigiana non implicava la partecipazione diretta ad una determinata azione, ma un’attività di affiancamento, di collegamento, di sostegno.
Sono stata una staffetta della 7a GAP nel periodo febbraio-giugno 1944 e in seguito staffetta del comando della 65a brigata « Walter Tabacchi » di Modena e nell’ufficio di collegamento del CUMER, sempre a Modena.
Per l’attività da me svolta i ricordi e le emozioni non si possono scindere in quelle « bolognesi » e in quelle « modenesi », ma sono ricordi e sentimenti di un’epopea partigiana che non conosce confini territoriali.
Ho già ricordato che l’attività di una staffetta si differenzia da quella normale attribuita ad un partigiano: è un’attività che non scaturisce (almeno per me) in determinate azioni di guerra (anche perché ho sempre lavorato presso i comandi e nelle città), ma s’intreccia e procede con queste, non coincidendo mai totalmente con il momento dell’azione partigiana. Questo non vuole dire che i ricordi e le emozioni siano mancate, erano invece differenti da quelle di un episodio particolare di guerra combattuto con le armi.
Le emozioni di diretta partecipazione che provai néU’esplicare il lavoro affidatomi si riferiscono a momenti particolari di pericoli, di ansie puramente personali e non credo quindi giusto identificarle con un determinato episodio di guerriglia partigiana. Se ai fini di un’« epopea partigiana » possono servire non solo le date ed i fatti, ma anche l’intensità di emozioni e di sentimenti che accompagnarono quel periodo, allora forse, la « staffetta partigiana » ne possiede in buona misura. Ma è inutile chiederle di precisare il momento più intensamente emozionante, il ricordo più vivo, perché ogni momento nel suo ricordo vive con una intensità che non ha misura.
Sono ricordi di uomini e di donne, di compagni di lotta con i quali ci si incontrò, con cui si studiarono i particolari di una determinata azione, ai quali si consegnarono le armi, gli ordini, le informazioni, la stampa; coi quali ci si rallegrò delle vittorie riportate e ci si rattristò sulla durezza della guerra e dell’oppressione.
Sono ricordi insomma di sogni comuni per un mondo libero da guerre e da oppressioni. E spesse volte questi uomini e donne mancarono all’appuntamento seguente e, magari, la staffetta fu testimone diretta e muta del loro arresto, quando non capitò di rivedere i compagni freddi e immobili nella morte. Quali di questi ricordi è più o meno intenso? Io non posso misurarli. Ogni uomo, ogni donna, nel mio ricordo occupano lo stesso spazio: non c’è differenza.
La sua autobiografia a puntate pubblicata nel 2009 sul periodico Resistenza
Avevo quindici anni
L’opposizione agli invasori per difendere l’indipendenza della patria, la cultura (e la lingua), la dignità personale. Arresto per antifascismo e deportazione in Italia, nell’Istituto di rieducazione di Bologna.
Mi ricordo quell’inizio della primavera del 1941. Splendide giornate serene riscaldate dal tepore dei raggi del sole. La vita era bella ed io tra poco avrei compiuto 15 anni.
Frequentavo il ginnasio, ero felice. Avevo i miei amici, avevo tutta mia la bellezza della mia terra, della mia città; avevo la mia famiglia, l’affetto dei fratelli tanto più grandi di me e del mio fratellino, avevo l’amore dei miei genitori.
La famiglia era modesta: anche se priva di ricchezza abbondava il calore dell’affetto.
Il babbo è stato il mio primo grande amico. Da piccola, tenuta sulle sue ginocchia, lo ascoltavo raccontare, tra storia e leggenda, gli eventi passati del nostro paese – Jugoslavia – nel tempo una terra travagliata, assoggettata a stati più forti (Turchia, Austria), sfruttata ma mai domata. Mi ha insegnato ad amarlo e di non dubitare mai e lottare per la propria dignità, umanità: avere speranza per il futuro.
Aspettavo la fine dell’anno scolastico per godere il mio mare Adriatico, nuotando e veleggiando tra le isole con gli amici. Questo era il mio mondo all’inizio della primavera del 1941, bello e spensierato.
Quando la prima domenica dell’aprile, durante la messa nell’antica cattedrale di San Giacomo in cui lavorarono Giorgio il Dalmata ed altri architetti italiani – la città vanta nel suo patrimonio monumentale il citato duomo (1431-1555), la chiesa di San Francesco con attiguo convento (1300); la chiesa di San Giovanni con orologio tipo turco e la scalinata esterna che sembra un pizzo di pietra; la chiesa ortodossa e la rinascimentale Loggia Grande del Sanmicheli di fronte alla cattedrale stessa – alla quale noi studenti eravamo obbligati ad assistere, il vescovo interruppe la preghiera e voltandosi verso di noi disse: stamattina all’alba gli aerei tedeschi hanno bombardato Belgrado, si temono migliaia di morti.
Rimanemmo frastornati, si sentivano voci: è la guerra!
Incredula, senza capire del tutto cosa significasse la guerra, tornai a casa. I genitori erano silenziosi e preoccupati: mio fratello Ivo lavorava a Smeredevo, la città industriale vicina a Belgrado, io capii ed ebbi paura per lui. Man mano che le ore passavano venimmo a sapere del crollo dello Stato, dello sfacelo dell’esercito. I soldati disertavano, gettavano le armi, molti però le seppellivano e tornavano a casa. Io pregavo per il fratello.
Seppi che la Jugoslavia veniva occupata dalle truppe tedesche ed italiane e divisa. Si parlava
di violenze, di morti.
La mia città, Sibenik, era ed è tuttora un porto militare ove erano ancorate le navi da guerra. Arrivarono gli aerei tedeschi, gli Stukas, a bombardare e mitragliare le navi ed il porto.
Fortunatamente alla città furono risparmiate le distruzioni gravi.
Trascorsero due-tre giorni di caos: senza governo, senza esercito, la gente aspettava trepidando. Poi alla sera arrivarono camion zeppi di soldati: erano italiani. Immediatamente il giorno dopo fu emanato il coprifuoco: dal tramonto all’alba successiva vietato uscire di casa. Si sentiva nella notte il movimento di mezzi corazzati e cannoni.
Mi ricordo che la prima sera del coprifuoco il babbo tardava a rientrare a casa; la mamma era allora agitata sapendolo poco ben disposto verso gli italiani, contro i quali combattè prima nella Grande Guerra 1915-1918 quale sottufficiale della marina austro-ungarica e nel periodo successivo 1918-1921 quando l’esercito italiano venne ad occupare la nostra città.
Al suo rientro a tarda ora, essa lo rimproverò di incoscienza e lui, il mangiaitaliani, le disse: ho visto dei giovani soldati, stanchi, impolverati, chiederci da bere e qualcosa da mangiare e siccome mastico qualche parola di italiano li ho accompagnati verso i luoghi in cui potessero ristorarsi. Erano così giovani, li vedo come figli. Io ascoltavo le parole di mio padre e non le ho mai dimenticate perché le sento ancora come una raccomandazione che innanzitutto non bisogna perdere il senso di umanità.
La spensieratezza dei miei quindici anni giorno dopo giorno scompariva.
A seguire il coprifuoco arrivò il razionamento.
I viveri scarseggiavano, si conobbe la fame, compariva il mercato nero. Le famiglie non ricche, come la nostra, finiti i pochi risparmi ed anche perché la pensione di papà era ormai incerta, vendevamo tutto il possibile per sfamarci. Scoprii un giorno che i miei si decurtavano quel poco della loro razione affinché io e mio fratellino di dodici anni potessimo alimentarci di più. Mi ribellai, li costrinsi a mangiare in mia presenza, sotto la minaccia non mangiare anch’io.
A scuola, noi studenti non eravamo più allegri: c’era nell’aria un’attesa di qualcosa. Una mattina sbarcarono le camicie nere italiane, una masnada di energumeni con le maniche rimboccate, stringendo in una mano il manganello e nell’altra una bottiglia. Così feci la conoscenza con i fascisti.
Marciavano verso si giardini e il centro città cantando a squarciagola. Lungo il percorso chi non salutava veniva percosso e obbligato ad ingurgitare il contenuto delle bottiglie. Seppi che contenevano olio di ricino ed un altro intruglio della cui qualità non sono certa. Spaccavano le vetrine e le insegne dei negozi scritte coi caratteri della nostra lingua. Noi giovani riuscivamo a sottrarci a quella violenza fuggendo, ma gli anziani no.
Mi chiedevo: dunque questi barbari sono italiani, ma allora quello che ho studiato dell’Italia, il paese delle arti, della poesia, il paese di Dante, Petrarca, Leonardo ed altri, dove sta? Era un inganno? E poi vennero nelle scuole.
Pretesero che studiassimo solo la lingua italiana. Pochi di noi la conoscevano.
Minacce, intimidazioni. E allora in noi, anche in me, accanto alla paura, subentrò l’indignazione, la ribellione, l’odio per ciò che ci veniva imposto.
Non volevamo rinnegare origini, cultura.
Ci fu chi bruciò i testi obbligatori in italiano, rischiando rappresaglia.
Iniziarono riunioni clandestine, ed imparammo il significato di fascismo e nazismo. Da qui la resistenza di noi studenti, dapprima passiva reagendo col silenzio duro alle ingiunzioni e via via sempre più attiva in varie forme, come scrivendo di notte sui muri parole di lotta e di speranza. Io, come tanti altri, mi iscrissi a SKOJ, l’Unione della gioventù comunista jugoslava.
Mio fratello Ivo tornò a casa percorrendo a piedi l’enorme distanza da Belgrado a Sebenico e parlò della violenza, della sofferenza inflitta al nostro popolo. Restò per poco, sparì, era diventato partigiano: si andava formando il nostro esercito di liberazione.
Il terribile scenario portato dagli stranieri era fatto di arresti, deportazioni, fucilazioni, incendi e massacri nei villaggi.
A dare manforte ai nazifascisti erano gli ustaša, i feroci ustascia del venduto Ante Pavelic, pupillo di Mussolini, addestrati in Italia. Era il periodo in cui i giovani non erano più giovani e i vecchi non potevano fare i vecchi. C’erano momenti in cui piangevo per la mia giovinezza rovinata, per i sogni infranti, ma nello stesso tempo non ho mai voluto cedere: pensavo a come poter entrare in una formazione partigiana.
Gli studenti erano sospettati di antifascismo, talché nelle case cominciarono le perquisizioni. A me sequestrarono le innocenti fotografie dei periodi felici.
Una sera dell’ottobre 1944, dopo il coprifuoco, sentimmo bussare alla porta. Era la polizia che cercava me e mi portò via. I miei genitori imploravano in lacrime, ma è una bambina, ha solo sedici anni, perché? Nulla da fare. In carcere trovai altre dieci compagne di classe. Pare che nella casa di una di esse fosse stata trovata una lista coi nostri nomi, per la polizia assai sospetta.
L’interrogatorio a base di lusinghe e di minacce non dette alla polizia italiana i risultati che si attendeva, Noi ragazzine fummo separate, io finii in una cella di metri tre per quattro, dove c’era la mamma di un partigiano ed in cui rinchiusero altre cinque mie compagne.
Seguirono giorni tetri. I genitori li vedemmo solo il giorno prima della nostra deportazione in Italia.
Inimmaginabile la disperazione loro e nostra. La mattina seguente, era metà ottobre, il cellulare Crna Marica (Maria nera) come lo chiamavamo noi, ci trasportò – eravamo undici dai sedici ai diciassette anni – al porto.
L’ultimo ricordo della mia città lo ebbi, seppure al prezzo di diversi ceffoni, sbirciando dalle fessure e vidi tutta la riva piena di gente tenuta a bada dai soldati con i fucili spianati. Aveva saputo ed era venuta a rincuorarci.
Non si può dimenticare una visione così. Circondate dai poliziotti ci fecero entrare nella stiva della nave, non permettendoci di salutare, anche con un solo sguardo affettuoso, la nostra cara Sibenik. Poi rotta su Trieste.
Scese dalla nave a Trieste fummo separate e destinate: quattro a Roma, quattro a Milano e tre a
Bologna. Io fui destinata a Bologna con Marija Separovic e Visnja Gavela. Di Trieste vidi un pezzo di marciapiede prima che i poliziotti ci infilassero in macchina.
Lunghe ore di viaggio; ognuna mi allontanava sempre più dal mio Paese. Immensa tristezza. Era la terza settimana di ottobre 1942.
A notte, ancora fonda, arrivammo in una città che poi seppi essere Bologna, e qui fummo consegnate ad un uomo e ad una donna. Eravamo nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate che comprendeva anche un reparto di minorati psichici e un altro di epilettici, ed ora anche noi.
L’istituto a conduzione privata, si trovava in Via della Viola a Borgo Panigale. Le bambine e le ragazze traviate, i minorati e le guardiane – un mondo a noi completamente sconosciuto e angosciante – ci guardavano con sospetto ma anche con curiosità, perché presentate come “pericolose sovversive”ed in più non parlavamo italiano.
I titolari dell’istituto, la famiglia Piazzi: padre, un figlio ed una figlia. I figli bravi fascisti. Il padre Angelo era diverso. Ci guardava con compassione e nel tempo trovammo in lui molta comprensione. Era il primo italiano che si differenziava dai fascisti, finora conosciuti. Capimmo che forse vi era diversità tra un italiano e un fascista.
Nei lunghi mesi del 1943 scoprimmo che anche tra le guardiane c’era differenza.
Solo ai primi mesi avemmo qualche notizia dalle nostre famiglie, poi più niente. Visnja Gavela, di famiglia ricca fu graziata e mandata a casa. Rimanemmo in due. Tutte le volte che, orecchiando, sentivamo sussurrare o vedevamo i visi neri dei fascisti capivamo che la guerra per loro andava male: era una gioia per noi.
25 luglio 1943, caduta del fascismo, speranza di poter tornare a casa; 8 settembre 1943, armistizio Italia-Alleati, stessa speranza ma vana. Caos Italia occupata dai tedeschi, repubblica di Salò. Bombardamenti. I tedeschi venivano in istituto e noi avevamo il timore di finire in Germania.
Poi un giorno una guardiana si dichiarò antifascista affermando di poterci mettere in contatto con altri antifascisti se riuscivamo a fuggire. Accettammo subito e la speranza rinacque.
Durante una delle poche passeggiate fuori dall’istituto, lungo Via Agucchi, ci incontrammo con un giovane che ci indicò il luogo dove trovarlo se riuscivamo a fuggire.
Il 5 ottobre 1943 ci fu un bombardamento nella nostra zona. Fu colpita la centrale elettrica confinante con l’istituto, danneggiato anch’esso. Una visione apocalittica: fumo, polvere, cancelli scardinati, urla, terrore.
Cogliemmo l’occasione per fuggire. Correndo intravidi il vecchio Angelo Piazzi, che senza dubbio capì e ci salutò con la mano.
Nel luogo fissato trovammo il giovane di cui purtroppo non ho mai saputo il nome. Ci accompagnò in una casa, credo a Longara di Calderara di Reno, dove incontrammo Linceo Graziosi, Giorgio Scarabelli e Bruno Tubertini, da poco liberi dopo anni di carcere fascista. Ci prospettarono due possibilità: tentare di raggiungere la Jugoslavia, tenendo conto del caos generale che imperava in quel periodo, promettendo di aiutarci; oppure rimanere in Italia con loro e combattere il fascismo.
Immediatamente, nonostante il desiderio di rivedere le nostre famiglie, decidemmo di rimanere qui perché convinte che ovunque si combattesse il nazifascismo avremmo combattuto anche per la nostra gente lontana.
Fummo accompagnate in una casa di contadini a Zola Predosa. Non ho mai saputo i loro nomi ma l’accoglienza fu piena di simpatia e di generosità da parte delle donne che ci accolsero; non
lo dimenticherò mai. Conoscevano il rischio che correvano ma non si tirarono mai indietro.
Il giorno dopo ci trasferimmo in montagna, credo Monte San Pietro, dove trovammo anche alcuni uomini. Era l’inizio del movimento partigiano.
C’erano anche i prigionieri alleati fuggiti, accolti dai contadini, un po’ distanti da noi. Io e Marija portavamo i pasti ai prigionieri ma un giorno, mentre aspettavamo che finissero il pranzo, mi sentii un fucile nella schiena: erano militi italiani. Non so come, con il mio italiano imperfetto, raccontai che eravamo profughe siciliane, fuggite davanti all’avanzata alleata senza documenti. Meraviglia! Mi credettero ordinandoci di presentarci in caserma il giorno dopo: naturalmente dobbiamo ancora andarci.
I prigionieri, sentendo le voci, tentarono di fuggire mentre i militi corsero dietro loro e noi due velocemente tornammo dai compagni raccontando il fatto. Essi capirono di essere stati traditi. Fu deciso di sciogliere il gruppo e ognuno doveva tornare al suo luogo di origine.
Ma quale era il nostro luogo di origine?
Ricordo la lunga camminata notturna per sentieri sconosciuti evitando i luoghi abitati e, non so come, al mattino eravamo a Zola Predosa.
Riconobbi la casa, bussai, ci accolsero, ci ascoltarono e avvisarono i compagni.
Tornammo a Bologna, accolti a casa dei fratelli Baffè: Ottavio e Argentina.
Persone meravigliose, affettuose, piene di umanità.
L’odio provato per gli italiani al mio arrivo stava scomparendo. Nelle persone finora incontrate, dopo la fuga, riconobbi gli stessi sentimenti della mia gente e mi sentii tra amici.
Imparai ad andare in bicicletta.
Nel frattempo ci trasferirono in via Crociali presso la famiglia Masi dove conobbi i figli: Giacomino, Vincenzo e Gianni (quest’ultimo arrestato durante lo sciopero alla Ducati del 1 marzo 1944 e deportato in Germania dove morì), la sorella Lina e la madre. Non ho parole per esprimere la riconoscenza a questa famiglia di operai antifascisti.
Essi sono un ricordo importante della mia vita.
I primi passi della Resistenza. Mi accompagnavo con un giovane, che poi seppi essere Ermanno Galeotti, primo partigiano caduto, Medaglia d’Argento al Valor Militare. Facevamo la ricognizione degli obiettivi militari e strategici, i possibili atti di sabotaggio, pedinamenti dei gerarchi fascisti, qualche trasporto delle scarse armi che allora possedevamo. Fingevamo di essere una coppia ed eravamo tanto giovani da non suscitare sospetti.
Io avevo intanto cominciato a parlare discretamente italiano, la Marija no. Spesso fingeva di essere sordomuta. Alla fine di gennaio la Marija andò a Villanova di Castenaso, come staffetta della SAP e si fece onore. Io rimasi a Bologna nella allora costituenda VII brigata GAP.
Mi chiamai Lina.
La bicicletta era la mia compagna fedele. Sul manubrio una sporta e dentro, coperta da stracci, armi, munizioni, ordini, materiali di propaganda.
Piano piano conobbi altri partigiani, in prevalenza giovani come me o poco più adulti. Per tutti voglio ricordare “Aldo” (Bruno Gualandi), “Paolo” (Giovanni Martini), “Gianni” (Massimo Meliconi, Medaglia d’Oro al Valor Militare), “Italiano” (Renato Romagnoli) e anche “William” (Lino Michelini).
Staffetta dei Gap di centro, nel tempo imparai i luoghi ove incontrarci, prelevare o riportare armi, ordini, propaganda.
Mi ricordo un gelido giorno del febbraio 1944, io e “Sassi” (Sonilio Parisini), partimmo per la montagna bolognese ed arrivammo a Castiglione dei Pepoli e a Baragazza a prelevare gli esplosivi per le bombe. Mi ricordo la gelida notte stellata, la corriera sgangherata che ci riportò a Bologna.
Mi ricordo “Pietro” (Diego Orlandi), nostro artificiere che incontravo presso la chiesa del
Sacro Cuore, oltre il ponte di Galliera, che mi consegnava le armi e le bombe da trasportare.
Mi ricordo la pesante bomba destinata a Ferrara per un atto di sabotaggio, che faticavo a trasportare correndo verso il treno e un soldato tedesco che insistette ad aiutarmi. Salvandomi la vita senza che ne fosse conscio. In treno, infatti, incappammo in un posto di controllo ed io passai indisturbata perché ero con il tedesco.
Fu gentile, Mi riaccompagnò nello scompartimento e mi salutò, ignaro di cosa avesse trasportato.
La vita della staffetta era questa ed ancora l’aiuto ed affiancamento ai gappisti quando necessario e richiesto. Lasciata la casa dei Masi, abitai in una stanza di un appartamento al pianterreno della Cirenaica, vuoto perché la famiglia era sfollata, (ora via Bentivogli). La finestra con le inferriate con i vetri aperti serviva all’occorrenza per depositare armi e bombe da prelevare per un’azione o da depositare ad azione compiuta, compito che spettava a me.
Rimasi a Bologna fino alla seconda metà del giugno 1944, quando “Luigi” (Alcide Leonardi), nostro
comandante di Piazza, mi disse di avere saputo da una fonte che ero ricercata dai fascisti: dovevo lasciare la città. Ricordo la sera prima della partenza quando in casa di “Paolo” (Gianni Martini) in via del Pratello salutai i miei compagni.
Andai a Modena. Mi presentarono a “Gino” (Italo Scalambra) della 65a Brigata Garibaldi “Walter Tabacchi” e divenni la staffetta del comando. Presi il nome Vera. Piano piano imparai a conoscere la città ed i paesi della provincia modenese che visitavo giornalmente in sella alla mia fedele bicicletta.
Trasportavo armi, munizioni e propaganda dalla città ai paesi e viceversa e consegnavo gli ordini ai vari distaccamenti per singole azioni di guerra e sabotaggio.
Anche qui conobbi i partigiani giovani e meno giovani. Vorrei ricordare: Omar Bisi, Marcello Sighinolfi “Mirko”, i fratelli Lugli e Baroni ed altri i cui nomi mi sfuggono.
Ed ancora Walter Tabacchi, nostro artificiere cui è intitolata la brigata, torturato e ucciso. Carmen, la mia socia nelle “passeggiate in bici”, Aurora, nostra dattilografa nonché staffetta e poi i titolari dei negozi modenesi che fungevano da recapito per la propaganda. Ma non posso non menzionare le donne che mi hanno ospitato a casa loro.
L’operaia della Manifattura Tabacchi, presentandomi come una cugina lontana, mi trattava come una figlia. Di fronte alla nostra casa abitava il famigerato torturatore dell’Accademia Militare di Modena, tenente Solieri con la moglie. Spesso ci trovavamo assieme nel rifugio a parlare, ma non sospettò mai di me. Nei giorni della Liberazione fuggì e si perdettero le sue tracce.
Le coraggiose donne dei casolari contadini che mi accoglievano materne. Erano madri, sorelle, spose dei partigiani, spesso staffette anch’esse impegnate nell’attività di sostegno alla lotta armata. Ho scordato i loro nomi, ma non il loro coraggio e la dedizione convinta da sempre che la Resistenza non poteva fare a meno del loro apporto.
Gigi e Ilva, marito e moglie, operai nella cui casa ho vissuto parecchio tempo, gentili, disponibili, fraterni. Per un periodo, tutto il comando fu collocato in una palazzina rimasta disabitata, di fronte ad una caserma di “brigate nere”. Noi eravamo in quattro: due uomini e due donne (Gino, Brunetti, Aurora ed io). Ci fingevamo coppia di sposi sfollati. Erano gentili: specie con me e Aurora.
Man mano che passavano i giorni diventava sempre più difficile lavorare in città: posti di blocco, rastrellamenti, intimazioni di fermo anche ai singoli. Io fui fermata parecchie volte e me la cavai anche senza documenti. Spesso mi facevo passare per una donnina allegra, senza fissa dimora. Solo nel tardo autunno 1944 ebbi documenti, naturalmente falsi.
C’era tanta paura dentro di me, ma non la esternavo: forse questo era coraggio. Nell’autunno 1944 venne scoperto il nostro magazzino di armi e munizioni. Arrestarono Walter, trovarono i nomi di “Gino” e “Vera” e ci cercarono. Non conoscevano i nostri connotati: furono arrestati parecchi, specie donne, tra le quali la Carmen.
Cercarono di individuare anche la “Vera” ma non ebbero successo.
Verso la fine dell’anno 1944 passai al CUMER. Il mio compito era l’individuazione della dislocazione dei mezzi corazzati, postazioni dei tedeschi, trasmissione degli ordini, accompagnamento degli inviati alleati paracadutati assieme ai lanci (che spesso al posto di armi contenevano sigarette e cioccolata), incontro con i compagni di altre città da accompagnare ai recapiti clandestini del comando in continuo cambio di luogo.
Per tutti ricordo Sante Vincenzi, ucciso il giorno prima della Liberazione di Bologna.
I primi mesi del 1945 furono pieni di ansie, di attesa dell’avanzata alleata che non arrivava. Furono mesi di continui attacchi partigiani alle postazioni dei tedeschi e dei fascisti; furono tempi in cui molti nostri compagni persero la vita. E arrivò aprile. Davanti all’avanzata alleata, i tedeschi si ritiravano, i fascisti fuggivano, i partigiani di montagna e pianura intensificavano
gli attacchi alle retrovie.
Mi ricordo Modena il 19 e 20 aprile. Deserta. Qualche soldato tedesco e qualche franco tiratore repubblichino da snidare. Il 22 aprile l’arrivo degli alleati in una città già del tutto liberata.
È finita la guerra. Pace. Il tripudio di gioia della gente scesa per le strade.
Io avevo appena compiuto 19 anni.